Bomba anti-Usa a Beirut Diplomatico salvo per caso

È sopravvissuto a un attentato che ha distrutto il fuoristrada su cui viaggiava: morti tre passanti che han fatto involontariamente da scudo

Il boato, un pinnacolo di fumo sul porto, i rottami contorti, il sangue, i tre cadaveri dilaniati sull’asfalto, gli sguardi sperduti di una ventina di feriti. Scene già viste, trenta volte, forse più in due anni. Scene di ordinario, consueto terrore per una nazione senza presidente, per un Libano tenuto in scacco da paura e attentati. Ma stavolta tra l’odore della cordite, l’ululato delle sirene e l’affanno dei passanti c’è qualcosa di più. C’è la sensazione di un altro passo all’indietro, di un altro salto in quel passato chiamato “anni Ottanta”. È il déjà vu di una capitale libanese vietata agli stranieri, una Beirut dove gli americani erano carne da bomba e gli occidentali ostaggi in vendita.
Il porto trema alle 16.30, dieci minuti dopo la prima voce rimbalza di bocca in bocca, collega quei tre cadaveri a quel fuoristrada con targa diplomatica americana. Eccolo, è un mucchio di lamiere contorte, uno sconquasso di pneumatici disciolti, parabrezza sbriciolati, sedili fumanti tra le mura sventrate di un incrocio. Tutt’intorno è il sobborgo cristiano di Karantina, un labirinto disordinato di capannoni, edifici mai finiti, quadrilateri di cemento, periferia e degrado industriale abbarbicato alla montagna. Da quell’obbrobrio post urbano la strada s’arrampica, curva dopo curva, rampa dopo rampa, fino al fortilizio di Awkar, fino a quell’ambasciata americana infrattata tra le montagne a nord della capitale. Tornava lassù nella roccaforte sicura quando l’esplosione l’ha intercettata. Una bomba di quelle libanesi, ordigni sopraffini, studiati per non lasciare speranza. Ma stavolta la vittima designata, chiunque fosse, deve ringraziare il destino, benedire due ignari poveracci. Loro sono lì nell’attimo cruciale, superano il fuoristrada, l’affiancano, fanno da scudo alla vampata fatale. Uno è un mucchietto di carne e sangue sotto un lenzuolo macchiato. Un altro è carbone tra lamiere bruciate. Il terzo è un pedone innocente, brandelli di carne e ossa annerite. Un uomo biondo, giovane, atletico si appoggia ai rottami, ha il collo insanguinato, si guarda attorno come se l’inferno l’avesse risparmiato. Forse era la vittima designata.
L’ambasciata americana lassù ad Awkar, il dipartimento di Stato a Washington non dicono nulla per un’ora. Gli uomini dell’ambasciata ravanano tra i rottami, controllano assieme ai colleghi libanesi la scena della mattanza. Poi dalla capitale americana le prime conferme ufficiali. «Per quanto ne so - dice il portavoce del Dipartimento di Stato Sean McCormack - le tre vittime sono libanesi e non lavorano per noi». Ma chi è il biondo, atletico e insanguinato? Fonti anonime dell’ambasciata lo definiscono un dipendente del servizio diplomatico ferito assieme a un autista e a un dipendente libanese. Dai rottami, intanto, salta fuori un mitragliatore e il sospetto che nel fuoristrada viaggiasse almeno un responsabile dei servizi di sicurezza. Del resto le bombe libanesi raramente colpiscono a caso. Non mentre il presidente George W. Bush è a Riad. Non mentre i regnanti sauditi, grandi protettori del governo del premier Fouad Siniora, discutono con lui i destini libanesi. Non a poche ore dal ricevimento all’hotel Phenicia per l’addio a Jeffrey Feltman, l’ambasciatore americano a fine mandato.
Del resto Al Qaida ha promesso tappeti di bombe per Bush. La Siria e Hezbollah hanno salutato il suo arrivo in Medioriente facendo capire di voler bloccare l’elezione di un presidente fino a quando il premier Siniora e i suoi protettori non scenderanno a patti con loro. Chi di bombe se ne intende, come il ministro delle Telecomunicazioni Marwan Hamadeh sopravvissuto a un attentato pochi mesi prima dell’eliminazione di Rafik Hariri, non ha dubbi. «L’esplosione di oggi - afferma - è simile a quelle degli anni Ottanta, quando puntavano a costringere i rappresentanti stranieri ad abbandonare il Libano».
Gli americani li ricordano bene. Il primo attentato all’ambasciata Usa, nell’aprile 1983, uccise 49 persone. Il secondo nel settembre ’84 fece altri 11 morti.

Nel frattempo 241 marines erano stati dilaniati da un camion bomba ed erano iniziati i rapimenti dei 17 statunitensi presi in ostaggio tra l’83 e quel fatidico ’89, quando una Casa Bianca stremata chiuse per due anni la rappresentanza diplomatica.

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