(...) episodio, solitamente quello dedicato alla vendetta del protagonista.
Stavolta, invece, non c'è nessuna vendetta, se non quella contro un certo tipo di sindacato e un certo tipo di politica che hanno scoperto all'improvviso Fincantieri e per cui Fincantieri è quasi un gioco dialettico, una partita dove domina la logica del «più uno», del chiedere sempre di più, senza rendersi conto che il tempo delle vacche grasse è finito e che, se non si rema tutti dalla stessa parte, il rischio è quello di smettere di remare tutti e per sempre. Riassunti in due parole, sono gli stessi concetti del Marchionne ospite di Fabio Fazio che tanto ha scandalizzato i conservatori rossi, azzurri (sì, ci sono anche quelli) e neri. Riassunti in due parole, sono gli stessi concetti espressi dall'amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono nello stand dell'azienda italiana a Euronaval, la fiera internazionale delle navi militari che richiama operatori da tutto il mondo, con Bono che si mangia con gli occhi i suoi modellini: «Ditemi voi, se c'è un'azienda al mondo che può offrire ai suoi clienti navi di questo livello». E qui, finalmente, scatta la spiegazione del «barra due»: qualche mese fa, su queste stesse pagine, raccontammo proprio che Bono è il Marchionne della Liguria (vabbè, il numero uno di Fincantieri è calabrese e ama le colline fra il Lazio e l'Abruzzo, il suo ufficio principale è a Roma, la sede ufficiale della società è a Trieste, ma i tre stabilimenti liguri di Sestri Ponente, Riva Trigoso e il Muggiano, la direzione navi militari di Genova, quella dei megayachts alla Spezia e il centro di ricerca genovese Cetena, sono a tutti gli effetti il core business dell'azienda), riferendoci ad alcune scelte industriali di Fincantieri. Un Marchionne ante-Marchionne. Come si conferma in pieno anche nell'esternazione parigina.
«Se mi permettete - attacca Bono - la prima domanda, la faccio io. Qualche tempo fa, mi venne chiesto se mi sentivo di garantire tutti i posti di lavoro nei nostri cantieri, nonostante la crisi. E io risposi di sì».
Mette le mani avanti prima di cambiare la risposta? «Assolutamente no, anzi, la confermo in pieno. Certo, quello che non potevo garantire e non posso garantire è che le persone che nella nostra azienda fanno un mestiere, facciano lo stesso identico mestiere alla fine della crisi. Ma questo è assolutamente normale in ogni azienda. Se poi, qualcuno ritiene che spostare di cinquanta chilometri la sede di lavoro di un dipendente che ritiene di poter lavorare solo in un sito significa licenziare, allora invito questi signori a provare a lavorare a Roma e a verificare i tempi e le distanze di spostamento quotidiano». Il riferimento al caso dei cantieri di Riva e del Muggiano è abbastanza trasparente, ma Bono non calca la mano e non chiude nè prospettive, nè cantieri.
Certo, c'è la volontà di dialogo, persino con i duri della Fiom, i metalmeccanici della Cgil: «Li invito a sedersi a un tavolo e a discutere sulla base di dati e situazioni reali, senza emozioni e preconcetti da parte di nessuno. Ma ricordiamoci anche che il sindacato non è solo la Fiom. Che il sindacato è più articolato». Ma il dialogo che sogna Bono è comunque basato su alcune parole d'ordine ben precise, magari scomode, magari politicamente scorrette, ma difficilmente prescindibili: «Per fortuna, noi dobbiamo fare i conti col mercato. E, ci piaccia o no, è un mercato mondiale. Quindi, ogni discorso non può prescindere da un aumento di efficienza e di ore lavorate, che sono basse rispetto a quelle degli altri Paesi. Se siamo centodiciottesimi nell'efficienza del lavoro e quarantasettesimi nella produttività, è chiaro che c'è qualcosa che non funziona. Marchionne pone problemi reali e seri, rispetto ai quali, ancora una volta, l'Italia sta sfuggendo. Ma sfuggire ai problemi reali non è il modo di fare il bene del Paese».
Così, sul banco degli imputati di ieri e di oggi di Bono non finisce solo il massimalismo di un certo sindacato - con particolari che sarebbero esilaranti se non fossero drammatici, come il racconto di un cantiere (per una volta, non ligure) in cui alcuni operai si rifiutano di fare la lavorazione «perchè c'è la polvere», nonostante tutti gli studi scientifici fatti in azienda dai maggiori esperti italiani e dalle Asl abbiano certificato l'inesistenza di rischi specifici o la difesa da parte del sindacato di alcuni lavoratori che andavano a pescare con la muta e il fucile subacqueo in orario di lavoro a Sestri -, ma anche la politica che ha scoperto recentemente il filone Fincantieri, con gazebo bipartisan a giorni alterni davanti alle fabbriche, perfetta evoluzione dei partiti che prima esultavano con un «Abbiamo una banca» festeggiando le scalate diessine, a una gioia più minimalista: «Abbiamo un banchetto». Ba(n)cchettati da Bono: «Forse, molti di quelli che fanno presidi non aiutano particolarmente i lavoratori».
Mica finita. Ci sono le istituzioni pronte a cavalcare lo scontento, anzichè aiutare a superarlo (emblematico il caso dell'amministrazione di Sestri Levante che fino a qualche tempo fa riteneva il cantiere una specie di seccatura, chiedendo all'azienda di pagarsi la costruzione di una strada per non «rovinare» il paese, e ora si è accorta che il cantiere è vitale) e con il paradosso di una rappresentante del centrodestra, solitamente documentata, che aveva incredibilmente rimproverato in televisione a Bono di non aver portato a casa nessuna commessa. Un giornalista serio, perbene e documentatissimo come Francesco Ferrari, sul «Secolo XIX» aveva risposto con la forza di numeri che dimostravano come Bono fosse il manager che aveva portato più commesse al mondo alla sua azienda, soprattutto nel settore delle navi da crociera. L'amministratore delegato di Fincantieri glissa e racconta un episodio degli ultimi giorni, quando Fincantieri non ha vinto la commessa per due nuove navi da crociera: «Non nascondo che abbiamo seguito il progetto, ma poi l'abbiamo abbandonato, per scelta. Abbiamo deciso di intensificare le relazioni con il gruppo Carnival, che resta il cliente più importante al mondo, che ordina e che paga». E proprio questa opzione secca a favore della multinazionale delle crociere che a Genova, in Liguria e in Italia è sinonimo di Costa, ma che ha vari marchi in tutto il mondo, gli è valsa recentemente i complimenti dell'amministratore delegato dei Chantier de l'Atlantique, il competitor francese, che ha riconosciuto la bontà della scelta di campo. Sarebbe stato difficile il contrario: quando si è insediato Bono, nei tre cantieri che si occupano delle crociere, lavoravano circa 4000 persone e oggi, all'incirca, grazie alla politica aziendale, sono ancora 4000. Ai Chantier de l'Atlantique, gli operai erano 5000, oggi sono 2500 e rischiano di ridursi a 1500. Insomma, numeri contro parole a vanvera.
Nel parlamentino dei supermanager pubblici, Giuseppe Bono è difficilmente ascrivibile al centrodestra (e anche al centrosinistra partitico, se è per quello). Ma le sue parole sono quasi perfettamente sovrapponibili a quelle dello spietato, ma lucidissimo fondo di Vittorio Feltri sul Giornale dell'altro giorno. Ad esempio, con l'invito a puntare di nuovo «sulle scuole professionali, per artigiani, carpentieri, saldatori, eccetera eccetera, avendo l'intelligenza di dare a chi fa questi mestieri molto più dei salari medi di altri settori, invogliando ragazzi che invece hanno come unica prospettiva di restare parcheggiati in università fino a 30-35 anni». Ad esempio, con la constatazione che «parlare di lavoro è parlare di produttività ed efficienza, non di altro. E che, se ragioneremo così e lavoreremo sul futuro, fra dieci anni, saremo qui come oggi a parlare della più bella azienda del mondo. Altrimenti non saremo proprio qui a parlare di questa azienda».
Insomma, non mi interessa nulla di dove siede Bono nel parlamentino dei manager pubblici. Invece, mi interessano moltissimo le sue parole. Parole che riesce difficile trovare sulla bocca dei manager, senza soluzione di continuità fra pubblici e privati, generalmente impegnati a stare nell'anticamera di un ministro con il cappello in mano: «Ma vi pare morale che io chieda soldi al governo per aiuti per fare navi da crociera e portare i turisti in giro per il mondo? Si pensi piuttosto, ai rifiuti, alle pensioni».
Morale, aggettivo magari un po' desueto, ma bellissimo.
Insomma, Bono il cappello se lo tiene in testa e non lo leva per chiedere soldi. Io, di fronte a un comportamento simile, quello stesso cappello me lo levo.
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