Cultura e Spettacoli

Bono Vox, la rockstar della «coesistenza»

Paolo Giordano

da Milano

Entrerà pian pianino e vestito di scuro, magari di fianco a The Edge, mentre tutto San Siro tremerà sotto l’urlo martellante degli amplificatori: «everyone» - tutti - sempre più forte, sempre più profondo. Iniziano così sin dai tempi di Olimpia i riti di massa, e quello degli U2, oggi nel 2005, è una sorta di gigantesca celebrazione della nuova liturgia del rock: volume alto e «sunpazeia», pulsare comune di comuni spiriti, finalmente svincolati da parti o partiti. I grandi eventi musicali hanno sempre avuto un nemico, un avversario: gli U2 hanno un obiettivo, e qui sta la differenza. Stasera Bono salirà in scena poche ore dopo essere arrivato a Milano da Zurigo, giusto il tempo di misurare con gli occhi la scena che le esigenze di ripresa hanno mostruosamente dilatato. Sui novanta metri del palco o sulle chele rossonere che penetrano fin dentro la platea, la fenomenologia di Bono scorrerà per intero. Il divo. Bono è oggi la rockstar dal peso specifico più alto, le sue dichiarazioni sono commentate dagli analisti politici e, casomai accadesse, un appello a Berlusconi o qualche battuta sul terrorismo durante i concerti italiani farebbero il giro del mondo. Dopo esser stato un modello di rock vecchio stampo (gli anni ’80), dopo aver distrutto l’archetipo dell’immagine musicale (i tour di Achtung baby e Zooropa), Bono oggi è il divo della rockpolitik, che non ha un nemico o un avversario ma solo uno scopo (non solo l’aiuto ai paesi poveri ma la «grazia» cui fa cenno dai tempi di Pop del ’97); che non usa il grimaldello dell’alta moda per sgraffignare l’attenzione dei fans; che non abusa rischiando di saltar sopra il carrozzone glamour che a ogni stagione cambia guardaroba di idee. Così il Bono che ci troveremo di fronte da stasera è più o meno lo stesso che nel ’92 aveva cantato The fly al Filaforum di Assago lasciando a bocca aperta i ragazzi (allora trentenni, oggi quarantenni) che si aspettavano il rockettaro un po’ ruvido, con la parlantina stretta da irlandese e quindi incomprensibile, con i modi carbonari e spicci che a Milano era arrivato durante la tournée di Rattle and hum. Gran parte del merito, dicono i suoi amici, è dell’abitudine di tornare sempre a casa dopo ogni concerto e di trascorrere un po’ di normalità insieme ad Ali e ai suoi quattro figli. E anche dopo i concerti di Milano, lui tornerà a Dublino per ripresentarsi a Roma nel pomeriggio di sabato, invertendo quella che è l’abitudine tipica di tutte le rockstar in Italia: concerti con abbuffata incorporata, svagi e pazzie nel Belpaese. Anche con questo equilibrio trovato a fatica nel guado della celebrità («Cosa credete, che tra me e mia moglie siano sempre rose e fiori?» ha detto), Bono si è conquistato, come ha scritto il Los Angeles Times, l’inutile candidatura alla presidenza della Banca Mondiale, o un paio di nomination al Nobel per la Pace. Quindi, quando stasera apparirà sul palco con la bandana bianca che porta contemporaneamente i tre simboli religiosi della nostra vita e dei nostri dolori (la croce, la mezzaluna e la stella di David), quando sul megaschermo dietro alle sue spalle scorrerà l’enorme scritta «Coexist», coesistere, allora nulla sembrerà forzoso o ciarliero. La filosofia della coesistenza è la filosofia degli U2 dopo che hanno smembrato quella delle opposizioni, degli scontri, del muro contro muro.

E la politica per la prima volta si è accodata (Tony Blair ma anche Bush), seguendo un bisogno che alla piazza arriva filtrato dalla musica e che in una strofa - «We’re one but not the same» da One – trova lo slogan necessario per farsi abbracciare da tutti.

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