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Bossi consiglia prudenza: evitiamo colpi di maggioranza

RomaSono le undici del mattino quando il Senatùr spunta nel Transatlantico di Montecitorio. Appena lo vede, la faccia di Massimo D’Alema s’illumina. «Umberto, perché non gli avete fatto presentare le liste, a quegli sfigati? Le firme gliele portavate voi». Bossi ride di gusto, poi scuote la testa e dà un paio di buffetti sulla guancia dell’ex premier. «Massimo, lo sai che sei davvero un gran pirla?».
Il leader della Lega la butta in caciara. Ma la battuta di D’Alema tocca un nervo scoperto nel rapporti tra il Carroccio e il Pdl. Solo poche ore prima Ignazio La Russa aveva accusato gli alleati di non aver collaborato per la lista di Formigoni: «La Lega doveva raccogliere 1500 firme su cinquemila, noi gliene abbiamo chieste solo cinquecento. È finita che ne hanno portate 300 di cui però soltanto trenta erano valide». Immediate la replica di Matteo Salvini, «la prossima volta gli amici del Pdl non chiudano le liste all’ultimo momento per litigare su chi mettere dentro», e quella di Giancarlo Giorgetti: «Noi siamo corretti, sono stati loro a farci sapere che il nostro aiuto non era più necessario. E poi in genere chi si fa carico della raccolta di firme è la forza che esprime il candidato. Infatti in Veneto e in Piemonte ci hanno pensato Zaia e Cota».
I leghisti si sentono trattati da «ruote si scorta», da «portatori d’acqua» della maggioranza. Ma il malessere deve rientrare per forza verso l’ora di pranzo, quando la situazione generale comincia a peggiorare e Bossi avverte che occorre fare qualcosa. «È una cosa urgente, bisogna provvedere». Un decreto? Una legge da concordare con l’opposizione? Uno slittamento del voto? «Lasciamo stare il decreto, si troverà una soluzione politica. Ma bisogna andare a parlare con Napolitano».
Alle due, accompagnato dallo stato maggiore del Carroccio, il Senatùr va a pranzo dal Cavaliere. Una colazione di lavoro, alla quale partecipano pure tutti i vertici del Pdl, che serve per stringere le fila e concordare una linea comune. La Lega è contraria al muro contro muro, perché è convinta che da questo impasse «non si può uscire a colpi di maggioranza» e perciò spinge il premier alla ricerca «del dialogo e di soluzioni il più possibile condivise». Berlusconi sembra d’accordo. Si sceglie così una strada istituzionale, che prevede una trattativa con Pd, Udc e Idv, un accordo con il Quirinale e la rinuncia, per ora, a scendere in piazza. E infatti, per abbassare i toni, i leader disertano la manifestazione a Piazza Farnese.
Resta aperto il punto chiave: decreto o leggina ad hoc firmata da tutti i capigruppo? L’altro giorno Roberto Maroni si era detto contrario a un dl, ma adesso il quadro generale è cambiato, la Lega non ha preclusione di principio. «Stiamo valutando tutte le possibilità percorribili - racconta Roberto Calderoli -. Adesso la cosa più importante, come ha sottolineato Bossi, è parlare con il presidente della Repubblica».
Sulle scelte definite peseranno anche le decisioni dei vari tribunali. Giorgetti ci tiene a sottolineare la diversità tra la situazione di Milano da quella di Roma. «Sulle nostre liste posso dire che sono assolutamente regolari. La soluzione politica è quella del buon senso. È evidente che la candidatura di Formigoni è sostenuta da più di 3.500 persone». Il governo quindi potrebbe fare qualcosa. «La Lombardia - spiega ancora Giorgetti - non ha una sua legge a differenza del Lazio e di altre regioni. È chiaro che a livello centrale è più facile intervenire in Lombardia che nel Lazio».
Intanto il Carroccio è in piazza a San Babila assieme al Pdl per una raccolta di firme «per difendere il diritto al voto». C’è anche Matteo Salvini, capogruppo della Lega a Palazzo Marino: «Al di là della forma - sostiene - per noi prevale la sostanza di dare una scheda elettorale a nove milioni di lombardi».

Gli alleati si ricompattano, però restano delle scorie: «Sulle polemiche si discute dopo, ma se qualcuno si attacca al cavillo c’è anche qualcuno che il cavillo lo ha permesso».

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