Gianni Pennacchi
nostro inviato a Budapest
«Non mi ricordo», risponde Massimo DAlema mentre attutiti e lontani giungono gli echi delle sirene, del volteggiar di elicotteri, delle esplosioni di fumogeni e proiettili di gomma che la Kendorseg, la polizia magiara, sta sparando sui dimostranti. È un altro mondo ma più vero, tagliato fuori da transenne ed alte reti, distante anni luce dalla cittadella del potere asserragliato nel Parlamento a celebrare i cinquantanni della rivoluzione dUngheria senza gli anziani che lhanno fatta e i loro figli che per ricordarla si trovano a doversi scontrare coi poliziotti. Ce ne son duemila a «proteggere» il governo e gli illustri ospiti qui convenuti dallEuropa intera per ricordare quel fatidico 23 ottobre del 1956. Gli scontri iniziano nel pomeriggio, al termine delle blindatissima cerimonia, e vanno avanti tutta la notte. Barricate ovunque nella città, lacrimogeni e proiettili di gomma sparati ad altezza duomo dalle forze dellordine in assetto antisommossa. Muoiono due persone, un uomo di 60 stroncato da un infarto e una ragazza di 14, colpita alla testa. La guerriglia urbana continua nella notte, i focolai della rivolta che si accendono un po ovunque. I dimostranti bloccano il ponte che unisce Buda a Pest, la stazione dei treni, altri punti della città. La polizia risponde con violenza. Ma il primo ministro ungherese, il socialista Ferenc Gyurcsany, denuncia laggressività dei manifestanti: «La polizia ha agito con determinazione e conformemente alle leggi in vigore».
Il nostro ministro degli Esteri che sappresta a un rapido ritorno a Roma, sulla scalinata del palazzone neogotico risponde di non ricordare la prima volta che è venuto a Budapest. «Tanti anni fa, sono stato qui tante volte», dice, «qui aveva sede la Fmgd - lInternazionale dei giovani comunisti - quindi si veniva spessissimo per ragioni di lavoro. Sì, siamo venuti qui molte volte. Poi sono tornato due o tre volte in questi anni, per lInternazionale socialista. Sono venuto anche in visita di Stato, quando era primo ministro Orban. Conosco bene la città».
Se conosce bene anche lattuale primo ministro, Ferenc Gyurcsany? «Sì, certo. È giovane, dinamico». Gli scontri tra polizia e dimostranti, gli fanno notare i giornalisti, stanno riprendendo violenti. E lui: «Non possiamo che auspicare che la tensione si sciolga in un civile confronto politico». Si fa sotto un giornalista ungherese, che parla un buon italiano: perché lEuropa non aiuta lUngheria, in questo momento che si trova sotto una dittatura come quella del 56? gli domanda con toni accorati. E DAlema sorridendo bonario: «Non credo. In Ungheria ci sono le elezioni e un Parlamento come in tutti i Paesi democratici. Poi ci possono essere opinioni politiche diverse, ma non mi pare che ci sia la dittatura e i carri armati come cinquantanni fa».
I carri armati no, ma le autoblindo e i gipponi quanti ne vuoi, col doveroso corredo di manganelli, scudi antisommossa, proiettili di gomma ad alzo zero e lacrimogeni a profusione. Hanno iniziato laltro ieri sera sgomberando a forza i giovani accampati in piazza Kossuth, davanti al Parlamento, affinché non rovinassero la festa dellindomani con gli ospiti stranieri. E sono andati avanti a guerreggiare fino a ieri sera, quando i fuochi dartificio festaioli hanno coperto i botti e le sirene della polizia. «Kommunisták Tunjetek!», comunisti andatevene, gridavano i ragazzi come i loro padri nel 56. E se allora ce lavevano con i sovietici e i collaborazionisti, adesso il bersaglio è appunto il governo a guida postcomunista. Gyurcsany, infatti - un quarantenne al quale non può essere addebitata alcuna responsabilità nella repressione culminata nel 58 con limpiccagione di Imre Nagy e altri 224 - durante il regime ha militato nella Gioventù comunista e appartiene a quella casta, avendo sposato la figlia di un ex ministro comunista. Ma la colpa più grave del premier e leader dellMszp, imperdonabile sotto il profilo politico, è quella dessersi fatto «beccare» dalla registrazione di un suo discorso in una riunione di partito riservatissima in cui ammetteva di aver mentito agli elettori prima delle elezioni dellaprile scorso. Laltro ieri, sempre in Parlamento dove venivano premiati i veterani della rivoluzione del 56, molti di questi si sono rifiutati di stringere la mano al primo ministro. Magdolna Rohr Pinter, donna forte e rispettata in Ungheria, che ha trascorso i migliori suoi anni in un gulag dellUnione Sovietica, lo ha fatto platealmente spiegando: «Posso dire che lui ha studiato lì, e ora riproduce qui quello che facevano in Unione Sovietica. Per questo, non gli ho dato la mano».
Così si assiste al celebrarsi di una rivoluzione popolare in cui proprio il popolo è escluso, coi figli degli oppressori che sappropriano della ricorrenza facendo picchiare i figli degli oppressi. Son caduti 2.800 ungheresi e 700 militari sovietici, tra il 23 ottobre e la repressione di novembre; ed oltre 200mila sono stati i profughi: questa è la sfortunata rivoluzione dUngheria. «È triste vedere una manifestazione che ricorda una rivoluzione di popolo, senza il popolo», commentava anche Peter Szjarto, portavoce dellopposizione ungherese. E sembrava un remake dei cinegiornali del 56 vedere ieri pomeriggio allangolo tra Alkotmány utca e Bajcsy Zsilinszky utca, dove gli scontri sono stati più violenti e riprendevano a gatto selvaggio, un ragazzo che avanzava tutto solo, sventolando il tricolore con una mano, a sfidare i cordoni di polizia.
Attila Fehér, 37 anni, guardava dal marciapiede sfogandosi: «Qui non cè democrazia, questo è il problema. Abbiamo un bugiardo che governa il Paese e che si è arricchito. I comunisti qui, sono diventati ora i più ricchi dUngheria». Tra i manifestanti ai quali era impedito celebrare cera anche Julius Ferenczy, 75 anni, profugo nel 56 e speaker di Radio Europa libera, tornato in patria dallAmerica trentacinque anni dopo; aveva una coccarda tricolore al bavero e sussurrava: «I comunisti non cambiano mai!». Edna Bóta, ragazza di 25 anni stupefatta: «È assurdo, incredibile. Perché ci fanno questo?».
A sera si contavano 55 feriti, di cui 4 molto gravi. Ma DAlema se ne era già andato, senza far visita alla Casa del terrore né al Muro degli eroi dove fiori e fiammelle illuminano le foto dei martiri, senza andare al cimitero sulla tomba di Nagy, perché a Roma lo attendeva la Confindustria brasiliana. Del resto, non era andato nemmeno alla serata di gala la sera prima al Teatro dellOpera né al successivo ricevimento ufficiale, unico assente europeo in un consesso dove cera il re di Spagna, i presidenti tedesco e austriaco, il cardinale Sodano e José Barroso. Imbarazzo? Non ne avrebbe motivo, se coi giornalisti non ha difficoltà ad ammettere che la rivoluzione ungherese «ha anticipato di tanti anni quel crollo della dittatura comunista allEst, segnando in modo drammatico linsostenibilità di quel regime».
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