Nino Materi
La domanda-chiave da cui partire è la seguente: può bastare da sola la pubblicazione su giornali come Science, Nature, NewScientist, Lancet, British Medical Journal e altre testate di uguale prestigio internazionale a garantire lassoluta affidabilità di una ricerca scientifica? Se con stucchevole ripetitività i cronisti di tutto il mondo fanno precedere il nome di tali riviste dallaggettivo «autorevole», una ragione ci sarà. Ed è bene sottolineare che tale ragione è in gran parte condivisibile; infatti i giornali citati rappresentano davvero il meglio delleditoria specializzata, anche se...
Dietro questi puntini di sospensione si celano clamorosi scandali, lultimo dei quali ha coinvolto uno tra i nomi più «autorevoli», Science appunto. È stato proprio sulle sue pagine che lo scorso anno il genetista sudcoreano Hwang Woo-Suk annunciò al mondo di aver clonato cellule staminali, dando alla luce i primi animali-fotocopia, peccato che - per ammissione dello stesso Hwang - quello studio fosse completamente falso e ora il genetista sudcoreano si trovi sotto inchiesta per frode scientifica.
In passato passi falsi sono stati commessi anche su Nature e British Medical Journal: nel primo caso a rivelarsi controversa fu la rivoluzionaria ipotesi sulla «memoria dellacqua» avanzata dal biochimico Jacques Benveniste; nel secondo caso ad essere smascherato fu lo scienziato indiano Ram B. Singh che sosteneva di aver individuato il «segreto dei cibi in grado proteggere il cuore»; in entrambi gli episodi a ripristinare la verità furono gli stessi direttori delle riviste su cui erano stati pubblicati gli studi.
E che si debba andare con i piedi di piombo perfino con i Nobel, lo dimostra la vicenda che nel 1989 coinvolse David Baltimore e la rivista Cell: dopo dieci anni di inchieste il virologo americano venne scagionato, ma il polverone scatenatosi fu allorigine della creazione negli Usa dellOffice of Research Integrity (Ori) che da allora si occupa di verificare gli esiti degli studi pubblicati sulle riviste di settore, in primis quelle specializzate in ricerche biomediche.
Sul tavolo del gran giurì scientifico americano finiscono ogni anno centinaia di casi su cui grava il sospetto di truffe, plagi, e conflitti di interessi. Decine, finora, le sentenze di colpevolezza con aziende farmaceutiche in rapporti speculativi con équipe di ricerca e gruppi editoriali che, in cambio di investimenti pubblicitari, chiudono gli occhi sulla reale efficacia delle «grandi scoperte» annunciate in copertina.
Per trovarne conferma basta sfogliare il recente saggio di Horace Freeland, direttore del Center of History of Recent Science della George Washington University: un libro-dossier dal titolo The Great Betrayal (in italiano, «Il grande tradimento») in cui si passano in rassegna, tra laltro, i finti scoop scientifici organizzati a tavolino per ragioni di profitto; notizie «bufale» e dati «taroccati» che solo in minima parte vengono corretti o smentiti dalle testate colpevoli di averli precedentemente avvalorati.
«LOffice of Research Integrity - si legge sul sito www.partecipasalute.it - ha registrato nel 2003 un incremento del 20 per cento nei nuovi casi segnalati dalle istituzioni rispetto allanno precedente. Un dato rilevante, se si considera che il numero delle denunce (pari a 105) supera di oltre il 50 per cento la media di 69 calcolata sugli ultimi dieci anni (dal 1993 al 2003)».
Un capitolo a parte meriterebbe linformazione scientifica su internet, strumento dalle potenzialità enormi ma ad altissimo rischio di inattendibilità. Un sito degno di essere consultato è www.livescience.com che si è preso la briga di passare al setaccio alcune delle credenze scientifiche date per «acquisite» da scienziati e opinione pubblica e che, invece, non hanno alcun serio fondamento. Numerosi gli esempi: non è vero che «gli esseri umani sono in grado di utilizzare solo il 10 per cento del loro cervello» (in realtà questa percentuale è superiore di almeno tre volte); non è vero che «nellemisfero sud lacqua scorre verso lo scarico del lavandino ruotando in senso antiorario» (in realtà, anche al di là dellequatore, lacqua seguita a ruotare in senso orario); non è vero che «la Grande muraglia cinese è lunico monumento visibile dallo spazio» (in realtà, appena superata lorbita terrestre, gli astronauti sono in grado di vedere anche le piramidi e le piste dei maggiori aeroporti); non è vero che «unghie e capelli continuano a crescere anche dopo la morte» (in realtà è il cadavere che, per effetto della disidratazione, si rimpicciolisce creando lillusione ottica dellallungamento di unghie e capelli); non è vero che «per digerire un chewing-gum ci vogliono sette anni» (in realtà bastano poche ore come avviene per qualsiasi altro alimento); non è vero «che gli uomini pensano al sesso ogni sette secondi» (in realtà ogni persona ci pensa quanto e quando vuole).
Ma torniamo alle pecche della grande editoria specializzata minacciata - secondo quanto sostiene la rivista Nature - soprattutto da una «mancanza di trasparenza e dagli inganni mirati a sfruttare il buon nome della scienza per inseguire i profitti, come rivelato dai recenti scandali farmaceutici». Non è un caso, dunque, che il National Institute of Health statunitense abbia indetto una moratoria di un anno, durante il quale qualsiasi attività di consulenza esterna per le aziende farmaceutiche e biotecnologiche sarà categoricamente vietata ai dipendenti. Lente nazionale vuole infatti stabilire delle regole che mettano in guardia dai conflitti di interesse e tutelino lintegrità della ricerca. Fantascienza per lItalia, dove questi argomenti trovano pochissimo spazio e non sembrano destare preoccupazione nelle istituzioni.
Tra le rare eccezioni figura il «Coordinamento per lintegrità della ricerca biomedica» (Cirb, sito internet www.cirb.it). Nato un paio di anni fa su iniziativa di alcuni ricercatori e operatori sanitari, il Cirb si propone infatti di sensibilizzare ai temi dellindipendenza della ricerca, oltre a promuovere la definizione di un codice comune di condotta. Come far sì che i giornali rivolti agli operatori sanitari pubblichino le ricerche migliori senza farsi influenzare dagli sponsor delle loro stesse riviste e da ricercatori e revisori che a loro volta possono avere conflitti dinteresse?
Una possibile risposta viene dal Committee on publication ethics (Cope) che ha sede a Londra e ha affidato a Richard Smith, il direttore del British Medical Journal, il compito di stilare una prima bozza per un codice di comportamento per gli editori in campo medico. La proposta di Smith tende, in sintesi, a trasformare il ruolo delleditore medico da passivo recipiente (di articoli da una parte e di pubblicità dallaltra), in soggetto attivo che svolge un ruolo cruciale nel garantire al proprio lettore ciò che gli viene proposto.
Il direttore si trasformerebbe così in un supergarante.
«Qui sta il punto - commentano amaramente gli esperti italiani del Cirb -, proprio queste domande dimostrano che il mondo della ricerca medica non è ancora pronto per accettare il nuovo ruolo degli editori e dallaltro che gli editori stessi pensano a volte più agli introiti pubblicitari che alla qualità degli articoli proposti».
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