Bush riscopre le Americhe

Bush riscopre le Americhe

«Bush non è il benvenuto», scandisce uno striscione retto da quattro deputati comunisti nel Parlamento brasiliano. «Sono qui semplicemente per dirvi che vogliamo essere vostri amici, che gli Stati Uniti sentono i problemi della condizione umana», dice George Bush nell’intervista a una televisione della Colombia. Sono i due estremi, quasi geografici ma soprattutto emblematici del periplo che il presidente americano ha iniziato nell’America Latina e che si svolge in condizioni di emergenza. Non tanto di quella dell’ordine pubblico, anche se le misure prese sono senza precedenti in tutte le città che egli toccherà, o di prevenzione del terrorismo.

Si tratta di un’emergenza politica: negli ultimi sei anni le due Americhe si sono allontanate l’una dall’altra come da decenni non succedeva, in una concatenazione di stati d’animo e di reazioni che hanno ormai creato un pericolo nuovo per il mondo, anzi per l’Occidente cui entrambe queste Americhe appartengono. Mentre la Casa Bianca era impegnata allo spasimo, militarmente e diplomaticamente, nel Medio Oriente il mondo più vicino è cambiato, è tornato indietro. I tre quarti degli abitanti dell’America Latina hanno ora di nuovo governi di sinistra, pochi anni dopo che una ondata di lucidità, definita a torto neo-liberale, l’aveva finalmente aperta alla democrazia. Chavez riabilita Castro e lo rilancia dal Venezuela, Bolivia e Ecuador lo seguono nelle Ande, i sandinisti sono tornati al potere in Nicaragua, il peronismo rafforza la sua presa sull’Argentina, i socialisti sul Cile. In Uruguay sono al governo addirittura i nipoti dei tupamaros, nell’ambito di una coalizione di tutte le sinistre. E Fidel all’Avana è più vecchio ma meno solo. Adesso, qualcuno dice finalmente, Bush torna a occuparsi dell’America Latina con una «spedizione» condotta in prima persona che è anche una sfida politica.

Lo dimostra fra l’altro il suo itinerario, che comprende cinque Paesi. Il più importante subito, il Brasile di Inácio Lula da Silva, il populista rieletto su una implicita promessa di moderazione e per questo diventato l’interlocutore privilegiato di Washington. Parleranno di «affari» i due presidenti, protetti da migliaia di poliziotti, tiratori scelti, agenti della Cia e dell’Fbi. Le misure di sicurezza sono state sfruttate dagli estremisti per alimentare la protesta, partendo dal disagio che a qualcuno ne è venuto e che è anch’esso simbolico: alcune baracche degli slums di Sao Paulo sono state abbattute e spostate. La «Condizione Umana», quella degli ultrapoveri del Sud America, quella per cui il visitatore ha espresso comprensione, simpatia e soprattutto impegno e che costituisce il tema, almeno ufficiale, del suo viaggio. Se i colloqui avranno successo, Lula potrà servire anche da «interprete», perché il Brasile, prima potenza del Sud America, intrattiene buoni rapporti anche con i vicini più radicali, compreso il Venezuela di Chavez. L’appuntamento successivo è sul terreno politicamente più lontano dagli Stati Uniti: l’Uruguay dei post tupamaros, una nazione minuscola, che è però una delle piattaforme negli scambi e nelle trattative economiche del continente.

Il terzo è sul terreno geograficamente più scottante: la Colombia. Sconvolta da decenni di guerra civile, poi dal doppio flagello della guerriglia «maoista» delle Farc e del mercato mondiale della droga. Il capo della polizia di Bogotà ha denunciato ieri un piano delle Farc di un «attentato terroristico» nella capitale in concomitanza con la visita del presidente Usa e ha preso misure di emergenza. Ci sono, fra l’altro, tre agenti americani dell’antidroga prigionieri dei ribelli e Bush ha chiesto di persona il loro rilascio: «Tenendoli nelle vostre mani - ha detto rivolto alle Farc - voi dimostrate al mondo tutta la vostra crudeltà». La visita più promettente, anche se tutt’altro che semplice, avverrà in Messico, che ha rieletto un presidente di centrodestra dopo una serrata campagna elettorale contro un ultrà di sinistra. Restano i problemi soliti: l’emigrazione e soprattutto il «muro» sulla frontiera per fermare gli illegali.

Ultimo appuntamento, infine, in Guatemala, un piccolo Paese sconvolto di nuovo da una bufera politica, lascito ed eco di un’altra guerra civile di decenni. Un vicino del Messico ma anche del Nicaragua neosandinista.

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