«Ci sarà tutto il Golgota della finanza e dei mercanti darte» dice entusiasta la padrona di casa a una cena di galleristi, giornalisti e modaioli, e si capisce che fra il Gotha e il Golgota è solo una questione di consonanti. La cena è naturalmente un fusion finger-food, che segue lhappy hour e precede lhappening, e magari il dripping e per i più trasgressivi il pissing, senza dimenticare le performances, gli events e gli environnements, perché poi larte è installazione e, va da sé, provocazione, è riciclo, scarto, assemblaggio e dissemblaggio, è deperibile, fruibile, persino commestibile... Soprattutto è «contemporanea», vale a dire un marchio e insieme un work in progress, lodierno monumentalizzato, studiato e archiviato per il solo fatto dessere tale.
Cera una volta la cultura, oggi cè il culto della cultura. Non è faticoso e, a suo modo, redditizio: cè lo sviluppo culturale e il passatempo culturale, lorganizzatore culturale e lattività culturale, il prodotto culturale e il marketing culturale... E possiamo passare sotto silenzio la cultura dimpresa, quella del management, la cultura del pallone, intesa come gioco del calcio, e la cultura dello scontro, vedi black bloc e cortei? E certo, il cibo è cultura, e la cultura è anche una risorsa, un giacimento: «il nostro petrolio» dicono i più ispirati.
Se tutto è cultura, anche niente è cultura e infatti è roba da antimoderni, sicuramente un po fascisti, pensare che la democratizzazione dellarte sia un passo indietro e non un passo avanti sulla strada del progresso. Non è forse un bene che oggi si vada nei musei come un tempo si andava al cinema a vedere Ben Hur? E non è un bene che ci si entri in t-shirt e pantaloncini, snikers ai piedi, piercing, tatuaggi e catenine e però in fila, code immense, le sale che sembrano unaffollata stazione della metropolitana in attesa che passi il trenino dellarte? Chi ci crediamo di essere per non volere partecipare a questo rito laico e democratico? Il fatto è che nelle epoche di decadenza è sempre esistito quello che Marcel Proust definì «lo snobismo della plebaglia», tipico delle élites in declino: il piacere dellincanaglirsi... Ci sarà tempo poi, a casa, per lavarsi. Le civiltà muoiono delle proprie illusioni.
Nella Factory di Andy Warhol locchio morto della cinepresa registrava per ore lo stesso oggetto o lo stesso attore, la tele-realtà, il grado zero dellimmaginazione. «Penso che si dovrebbe essere continuamente spiati... spiati e fotografati» era la sua idea dellarte contemporanea, un po come, scrive Marc Fumaroli nel suo Parigi-New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini (Adelphi) «la Stasi, la polizia politica della Repubblica democratica tedesca, quale la mostra in azione il film Le vite degli altri: la stessa idea». Detto in altri termini, scomparse le ultime glorie moderniste, Picasso, de Staël, Rothko, Bacon, cè la proliferazione di unarte contemporanea e delle arti plastiche «asservite allimmagine tecnologica, alla pubblicità, al grande commercio di lusso». È il marketing, lesposizione che prende il posto dellopera, del suo significato.
Fumaroli è francese, come Jean Clair, che oggi pubblica anche in Italia Linverno della cultura (Skira). Se il primo è un raffinato letterato, Clair fa parte a pieno titolo del campo della critica darte: è stato conservateur del Centre Pompidou, direttore del Musée Picasso e, nel 1995, direttore della Biennale di Venezia del Centenario. È anche per questo che le sue critiche e le sue osservazioni, da cui abbiamo preso spunto nelle righe precedenti, hanno suscitato tanto clamore. «È un traditore», uno che «sputa nel piatto dove ha mangiato» hanno riassunto alcuni suoi colleghi, «un morto che parla» ha chiosato un gallerista italiano.
La mercificazione, lo snaturamento dellarte e della cultura, «il tempo del disgusto che ha rimpiazzato letà del gusto», larte lanciatasi in una «cerimonia strana dove il sordido e labiezione scrivono un capitolo inaspettato della storia dei sensi», questo racconta Clair in un pamphlet agile e affilato. «Siamo entrati nellepoca delle basse opere, lespletamento delle funzioni naturali. Sono divertissements non più di creatori romantici ma di creativi contemporanei, di comunicatori, fotografi, parassiti, di quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro. Piscio dunque penso. Incontinenza dellio. Prostata delle civiltà stanche. Catastrofe».
La domanda che sia Fumaroli sia Clair si pongono è: ma chi compra larte contemporanea? Bisogna considerare che gli artisti ormai non espongono più in una galleria: «investono». Etimologicamente, il significato di investire era quello di conferire qualcosa a qualcuno, linvestitura di un titolo, di un potere, oppure, nella sua accezione bellica, laccerchiamento di una roccaforte... Adesso sta a indicare una realtà prettamente mercantile, si impiega cioè un capitale e larte è soprattutto e/o solamente un business.
Il «valore» dellopera, dunque, non avrà nulla a che vedere con lestetica, quello che conta è la sua performance economica: «Una strana oligarchia finanziaria mondializzata, comprendente due o tre grandi gallerie parigine e newyorkesi, due o tre case darte e due o tre istituzioni pubbliche responsabili del patrimonio di uno Stato, decide della circolazione e della cartolizzazione di opere darte che restano limitate alla produzione, quasi industriale, di quattro o cinque artisti». I Koons, gli Hirst, i Serrano, i Cattelan, i Fabre... Come lintendenza di Napoleone, il resto seguirà: più in piccolo, ma nella stessa logica...
Cè un altro punto che vale la pena di sottolineare. Essendo incomprensibile in sé, larte contemporanea deve essere spiegata, giustificata, imposta, necessita insomma di un piedistallo di parole sul quale poggiare linconsistenza dellopera, poiché senza il sostegno delle parole la maggior parte di quellarte non ha senso, non è intellegibile.
Torniamo al Golgota da cui siamo partiti. Sul suo cammino cè la Body art e la Land art, larte spazzatura, la psico-art, larte post-umana. Sono gli artisti ad essersi persi lungo la strada.
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