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Calcio, guardate che stipendi. Non ci chiedano lo spalmadebiti

Iniziamo subito a dire una cosetta facile facile. Chi riesce a farsi dare 11 milioni di euro l’anno, merita il nostro massimo apprezzamento. Non sta rapinando una banca o svaligiando un treno. Il mondo è piano di ricconi, e da queste parti ci si compiace della ricchezza altrui. Mica si fanno tante polemiche e invidie di quarta categoria. A ciò si aggiunga che la questione del merito, riguarda poco queste vicende. Se una star, un attore, un calciatore, un golfista o quello che volete voi, viene ben pagato sono affari (ottimi) suoi e dei suoi committenti. Il merito è una categoria diciamo così dello spirito, i soldi e gli stipendi una faccenda della carne. Nessuno si scandalizzi degli 840 milioni che i nostri assi del calcio si portano a casa. Ma attenzione: non venite a chiederli a noi. Altrimenti la faccenda cambia. E di molto. Così come non vogliamo fare i moralisti, conviene che non si faccia troppo gli indovini. Ma basta guardare a qualche anno fa e un brivido ci corre lungo la schiena. Vi ricordate il decreto spalmadebiti? Società calcistiche sull’orlo del fallimento che chiedono, appunto, di spalmare i propri debiti, e dunque i conti con il fisco, su un arco temporale di 10 anni? Poi la Ue, in pieno regno del commissario Mario Monti, si secca, parla di aiuti di Stato e riduce lo spalmadebiti a cinque anni.
Per farla breve per quale diavolo di motivo un’azienda metalmeccanica brianzola deve pagare l’Irap nonostante non abbia fatto una lira di profitto, un cotoniere di Como deve chiudere battenti perché non ha più una commessa, i dipendenti di una grande impresa debbono essere messi in cassa integrazione e le società del calcio possono considerare il loro vincolo di bilancio più o meno un optional? Il gioco non è più così sportivo.
La questione, dunque, non è moralistica. Ma, se permettete, ben più seria. Si può ragionevolmente pensare che una società possa sostenere debiti doppi rispetto al suo fatturato? Si può immaginare un megastipendio da 840 milioni di euro, solo per il costo delle retribuzioni di quella grande troupe che ci fa divertire negli stadi? Il ritorno di tutti questi investimenti ci sarà mai? Lo psicodramma collettivo della società calcistica che sta fallendo è un film che abbiamo già visto. Quando escono dallo stadio i tifosi sono anche contribuenti. Soprattutto quando lo Stato, smessa la giacchetta degli spalti, li obbliga a versare il 50 per cento dei propri redditi in imposte, o se hanno un’azienda li fa rigare dritti come in un campo militare.
Quello che strabilia delle tabelle che pubblichiamo è l’incapacità di un settore di capire come stia ballando sul Titanic. È evidente che il disarmo non può essere unilaterale. Chi si azzarda a pagare di meno, quando il vicino strapaga? Per questo motivo occorre che lo Stato sia ben chiaro. Questa volta non c’è alcun pasto gratis. Soprattutto se a pagarlo debbono essere i contribuenti, già vessati dalla crisi e dall’iperfiscalismo dello Stato. E se a riceverlo, il pasto, sono dei signori miliardari che fino a ieri hanno mangiato in abbondanza.

Pagate e spendete a volontà, ma il conto non ribaltatelo sui contribuenti.

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