Chi è stato Leo Longanesi? A sessant'anni dalla morte (27 settembre 1957), uno studente del liceo, sfogliando le più comuni antologie scolastiche, potrebbe nutrire qualche dubbio. L'inventore del rotocalco, parola forse misteriosa per un adolescente? Un brillante editore di libri e periodici? Più probabilmente lo identificherà come uno scrittore di aforismi a misura di social network. L'arguzia geniale di Longanesi è fuori discussione ma i motivi per ricordarlo sono altri e ben più scomodi, ragione per cui vengono accantonati come non fossero mai esistiti.
«Carciofino sott'odio», come si autodefinì, uomo sempre in contraddizione con i suoi tempi, fondatore del settimanale frondista Omnibus sotto il fascismo e del settimanale frondista Il Borghese sotto l'antifascismo, Longanesi non esibisce un pensiero sistematico (nel caso lo avrebbe demolito lui stesso) ma propone un pensiero comunque profondo, attuale ed espresso in un italiano da fuoriclasse. Il frammento era la misura perfetta per un provocatore nato, capace di trovare sempre il dettaglio incongruente, quello che strappa un sorriso (amaro) nello stesso istante in cui mostra il crollo del castello di carte chiamato Italia. Parliamo dell'elefante (1947), Ci salveranno le vecchie zie? (1953), i postumi La sua signora (1957) e Fa lo stesso (1996): sono libri, quasi tutti pubblicati per la propria casa editrice, la Longanesi appunto, tuttora necessari per capire l'Italia.
Il tradimento della borghesia è uno dei temi esplorati con maggior costanza da Longanesi. La borghesia dell'Ottocento è stata una fonte di ricchezza e sviluppo per l'intera comunità. Oggi è tutta un'altra storia, fatta di avidità, volgarità e ignoranza: «Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: una differenza di zeri, fra gente che vale zero». L'eredità morale dei vecchi borghesi è andata persa: «I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non chiedono di rimanere borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo. Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di polvere. La storia attira l'agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d'oggi, la sola cosa che gli sta a cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente». La cultura è un lusso che la borghesia non desidera più: «Nell'attesa della rivoluzione proletaria, il ricco borghese, che finanzia le edizioni Einaudi, si distrae intanto risolvendo le parole incrociate: è il suo passatempo culturale». La borghesia ha dunque rinunciato alla sua missione storica. È quasi pronta a completare l'opera, giungere al pieno disprezzo di se stessa e sbandare a sinistra. Tu chiamalo, se vuoi, Sessantotto.
A Longanesi non sfugge la oscena alleanza tutta italiana tra socialismo (statalismo) e capitalismo. Burocrati e (im)prenditori sono pronti a spogliare il Paese, cioè la classe media, di ogni ricchezza attraverso le tasse e i regali alla grande impresa. In Italia, parlare di libero mercato rasenta il ridicolo. Si può scegliere al massimo tra il Dirigismo liberista e il Liberismo dirigista, come diceva Antonio Delfini, un altro autore gigantesco e condannato alla rimozione addirittura totale per eccesso di libero pensiero. Scrive Longanesi: «È l'amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l'unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l'accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza; è la pastetta, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato». Di fronte a questo scenario, al saccheggio e allo spreco sistematico, Longanesi si chiede se non sia possibile fare a meno di questo Stato e come sia possibile difendersi. Ecco la risposta: «Ma oggi, oggi io vi dico, cittadini, che è giunta l'ora della grande riscossa; io vi dico che non dobbiamo più pagare le tasse; se lo Stato spende, noi risparmieremo. A lui il marmo nero, a noi la carta straccia: e vedremo». Sul ponte sventola bandiera nera, quella degli anarchici.
Lo Stato, o meglio il senso dello Stato, non c'è più: «Non è più un principio, non è più una idea, non è più una morale, è soltanto una consorteria; e tutti i cittadini pensano soltanto ai casi propri, pensano a campare, approvano, aderiscono, accettano. La dittatura, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra; la dittatura che tenne il potere con le armi ora lo tiene con il consenso, un consenso fatto di noia e di abulia». In che senso dittatura? Non regna oggi la democrazia? Longanesi: «Non si tratta ancora di dittatura nel senso comune o storico della parola, ma di una nuova tecnica dell'uso del potere». Le nuove dittature «non hanno miti imperiali né programmi autarchici, e tendono a perfezionare la loro autorità con criteri economici più che politici; esse non minacciano la libertà, né quella di stampa, né le altre libertà individuali». L'economia mondiale va a mille all'ora e richiede decisioni immediate. La volontà popolare e anche i partiti politici sono un intralcio. Questi ultimi sono stati esautorati nei fatti: «Oggi, un partito non ha più la possibilità di agire: qualunque cosa egli faccia o dica, non sposta di un pelo la situazione di un paese, come il nostro, soprattutto». La democrazia uscita vittoriosa dalla guerra perderà la pace, trasformandosi in una tecnocrazia: «Costretta ad affrontare ogni giorno problemi industriali e finanziari gravissimi, ubbidisce soltanto alla sua pratica economica; la difesa della libertà o dei diritti dell'Uomo, o quel che c'è d'altro, la preoccupano soltanto in astratto». Lo Stato, inteso come un'unità economico-finanziaria ormai autonoma, decide sopra le nostre teste. Ma il brutto, dice Longanesi, è che se il potere fosse realmente esercitato dalle masse sarebbe forse ancora peggio per la libertà.
Pensare che queste pagine sono state scritte più di sessant'anni fa mette le vertigini. C'è già tutto: la crisi della democrazia, il capitalismo all'italiana, lo Stato affondato dal debito pubblico, la classe media ammazzata di tasse, le contraddizioni della globalizzazione, lo scarso patriottismo, l'analfabetismo di ritorno.
Longanesi purtroppo ha visto lontano perché conosceva il dna del Paese. A cui appartiene anche la tradizione di emarginare o minimizzare i cervelli più originali. Longanesi era decisamente molto di più dei suoi geniali aforismi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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