Politica

CARI INDUSTRIALI FATE UNA GRANDE IMPRESA

Ieri il presidente di Confindustria ha elencato le molte cose che in questo Paese non vanno. Ha criticato Antonio Fazio per la difesa delle banche italiane. Ha attaccato le rendite finanziarie e accusato il governo di non saper fare una politica alta. Ha lanciato una proposta per rifondare nuove relazioni sindacali. S’è lasciato andare anche a qualche considerazione sul turismo e sulle riforme costituzionali. A sinistra la relazione è piaciuta da impazzire, tanto che si sono spellati le mani ad applaudirla, a destra un po’ meno.
A noi francamente è parsa noiosa. Le solite quattro idee: fare squadra, promuovere il marchio Italia, puntare sullo spirito di ricostruzione, ritrovare più senso dello Stato. Belle frasi, intendiamoci, ma acqua fresca che non è certo il miglior carburante per far ripartire un motore in panne. Dal presidente di Confindustria, dall’uomo che guida il più grande gruppo industriale privato italiano, avremmo preferito sentire parole concrete su cosa non va nelle imprese di casa nostra e cosa devono fare per rimettersi in moto. Montezemolo ha invece preferito parlar d’altro, officiare il solito rito, che prevede l’autoassoluzione e la colpevolizzazione di terzi. Qualche settimana fa, a proposito di Margaret Thatcher, scrivevo che la Lady di ferro viene ricordata per la battaglia che intraprese contro il sindacato, ma ci si dimentica che combatté un’eguale lotta contro gli aiuti pubblici all’industria che non sapeva fare il proprio mestiere. Se si dà un’occhiata agli incentivi che lo Stato ha versato alle imprese nel 2003 (escludendo ferrovie, agricoltura, pesca e trasporti) si scopre che essi rappresentano lo 0,44% del Pil: in Gran Bretagna si fermano allo 0,19. Oddio: l’Italia è in buona compagnia. Anche francesi e tedeschi distribuiscono aiuti a pioggia e infatti, a differenza degli inglesi, hanno un’economia che boccheggia.
Qualche giorno fa il ministro del Tesoro Siniscalco ha riesumato il discorso d’insediamento di John Kennedy alla Casa Bianca e rispondendo agli industriali ha detto: «Non chiedetevi che cosa può fare lo Stato per voi, ma che cosa voi potete fare per lo Stato». Nella relazione di Montezemolo non c’è traccia di una risposta, se non un’insofferente alzata di spalle.
In realtà, scorrendo le statistiche si scopre che l’impresa italiana è agli ultimi posti negli investimenti in ricerca e sviluppo: solo l’1% del Pil (anno 2000) contro il 2,7 degli Usa, l’1,8 degli inglesi. In fatto di brevetti depositati negli Usa ha una quota del 2,2%, contro il 14,1 della Germania, il 5,8 della Francia, il 46,9 del Giappone. La verità è che la nostra impresa versione anni Duemila ha una modesta capacità innovativa. Tra i Paesi dell’Ocse è agli ultimi livelli ed è scavalcata perfino dalla Nuova Zelanda. Secondo un indice messo a punto dall’Onu per misurare la capacità di partecipare alla terza rivoluzione industriale, siamo al ventesimo posto e ci superano nazioni come la Finlandia, l’Olanda, l’Austria. Tutta colpa della classe politica? Responsabilità solo del governo? Non credo. Per anni ci siamo cullati nel piccolo è bello, perché la moneta svalutata e la flessibilità delle aziende con pochi operai consentivano di essere competitivi. Ma piccolo non è bello se servono i soldi per investire in grande. I piccoli imprenditori hanno fatto miracoli. I grandi qualche disastro.
Da noi abbondano i capitalisti senza capitale, quelli che controllano le aziende col minimo sforzo finanziario. Montezemolo si lamenta delle rendite: dice che il nostro Paese ha tanto capitale, ma troppe aziende sottocapitalizzate e sentenzia: «Vuol dire che stiamo usando male le nostre risorse». Forse dovrebbe rileggersi un agile libretto scritto da Massimo Mucchetti, un giornalista del Corriere della Sera che ricorda come dal 1993 al 2001 in Borsa siano affluiti quasi 142 miliardi di euro, una montagna di denaro mai vista prima. Ma quei capitali sono stati bruciati. Una distruzione di ricchezza che Mucchetti riepiloga così: in 16 anni la Fiat ha fatto fuori 14 miliardi di euro, l’Olivetti 7,2, Montedison oltre 4,6, Pirelli quasi 2.
Negli anni Novanta la grande impresa ha avuto una grande occasione, ma non l’ha saputa cogliere. I grandi capitani d’industria hanno distrutto l’industria e oggi i loro eredi non possono cavarsela facendo spallucce.

Prima di spiegarci cosa deve fare lo Stato per loro, ci dicano che cosa possono fare loro per noi.

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