Cultura e Spettacoli

Caro Giorello, società aperta è dare la vita per un’idea

Su una cosa sono sempre stato d’accordo con il filosofo della scienza Giulio Giorello: sul fatto che ciascun individuo è responsabile dei propri atti, comprese le relative conseguenze, e che perciò dire, ad esempio, che un ateo è un credente inconsapevole (classico troppo clericale) è una spiacevole invadenza di campo. In generale, tutti quelli che ci vogliono dire quello che c’è in realtà nella nostra testa e nel nostro cuore sono piuttosto antipatici. L’ultimo libro di Giorello, Di nessuna Chiesa (Cortina), raccoglie alcuni interventi sul tema della «libertà del laico». Contiene molte considerazioni stimolanti. Io parlerò di due o tre cose sulle quali non sono d’accordo. Una è che non si esce nemmeno qui dal vizio che accomuna laicisti e cattolici di impostare tutto il discorso in chiave perennemente difensiva. Bisognerebbe, in altre parole, chiedersi qual è la posta in gioco prima di istituire divisioni. Quando i laici accusano la Chiesa di ingerenza e di coazione delle coscienze su temi quali la bioetica, la morale sessuale, o la «dittatura del relativismo» dicono il vero solo là dove la Chiesa (o chi per essa) ponga la questione in termini di egemonia, ossia di potere. Ma sbagliano quando le negano il diritto di dire la sua su argomenti che le stanno a cuore e di dare suggerimenti alla libertà individuale del cristiano. Non voglio addentrarmi sul tema del relativismo, ma dubito fortemente che il Papa intendesse attaccare il metodo scientifico, come Giorello crede. Il relativismo in parola riguarda una distruzione dell’umano, dell’io, che temo avrà pesanti ricadute anche sulla capacità di apprendere il rigore (che è anche morale) del metodo scientifico stesso. Anche sulla libertà bisogna chiarirsi le idee. Giorello riprende l’ideale nietzschiano di una libertà «che può essere vissuta talora come un peso intollerabile, al punto da rendere seducente l’offerta di un qualche principio assoluto...». Ci si domanda quale sia l’estensione di «principio assoluto» e se Giorello sia disposto a verificare di volta in volta se l’adesione, ad esempio, al cristianesimo sia da annoverare tra queste defezioni della libertà - se, in altri termini, si possa dire che la libertà si esprime in un gesto di adesione a un ideale - come io credo - o se per mantenersi pura essa debba condannarsi a una triste in-decisione. Da ultimo: mi fa un po’ paura quando Giorello parla di «strutture protettive» della società aperta e dice: «la società cui penso dovrebbe essere deputata a intervenire con la massima efficacia su chiunque (...) nuoccia agli altri, minoranze o maggioranze che siano, ma non a stabilire sanità e follia, a modellare mentalità e a frugare nelle coscienze». Queste sono chiacchiere. Il problema politico è: chi stabilisce quando si verifica un danno? Dov’è che si enuncia la norma? È sufficiente dire la società? Dopo aver detto che il problema del senso dell’esistenza è un problema astratto (mi spiace per Giorello che la pensa così), ecco qua la più bella delle astrazioni. Come penserà di difendersi, la «società», senza stabilire odiose partizioni? Se vorremo rinunciare alla polizia armata, dovremo rassegnarci a quella disarmata, che poi delegheremo, volenti o nolenti, a frugare nelle coscienze. La crisi della società aperta è, purtroppo, lontana da una soluzione. Per me, società aperta significa essere pronto a dare la vita per le idee di Giorello: se qualcuno le soffocasse, in qualche modo ucciderebbe anche me.

Ma nessuna ingegneria sociale, nemmeno la più blanda, potrebbe mai ottenere chimicamente una simile disposizione (che ben pochi laici hanno quando a essere in pericolo sono le idee e le vite dei cristiani).

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