Caro vecchio Zorzi sei proprio come Cartier Bresson

È quella impressionista la lettura migliore della "Tempesta". L’autore, proprio alla maniera del grande fotografo, ha colto il "momento decisivo"

Caro vecchio Zorzi 
sei proprio come 
Cartier Bresson

Fece scalpore nel 1978 ai miei venticinque anni, giovane ispettore alle Belle Arti in Venezia, l’uscita del libro La "Tempesta" interpretata di un meno giovane, ma molto agguerrito, professore di archeologia, tanto curioso, e insolitamente, in un tempo di pervicaci specialisti: Salvatore Settis, che iniziava con quel libro la sua luminosa carriera di studioso rinomato e popolare.
A Settis il soggetto tanto discusso sembrava di semplice interpretazione. L’uovo di Colombo: i due personaggi non erano altro che Adamo ed Eva, dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. E al diavolo le lambiccate interpretazioni di storici e iconologi che hanno evocato l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna o l’Arcadia di Jacopo Sannazzaro o la poesia del Petrarca o con temi biblici come il ritrovamento di Mosè o Agar e Ismaele. Ma anche Settis, pur con la sua freschezza d’interprete e l’autorevolezza dell’editore (Einaudi), sulla distanza non convince. Il mistero della Tempesta continua ad apparire impenetrabile, anche moltiplicandosi gli indizi e gli approfondimenti degli studi, come la recente lettura del Falciani che risale a un manoscritto marciano quattrocentesco dedicato alla famiglia Vendramin, la stessa del Gabriele, nella casa del quale il Michiel vide la Tempesta.
In realtà il mistero della Tempesta si è molto diradato, se non dissolto, negli ultimi anni; e non è infondato ridurlo alla giusta e semplice definizione del primo che la vide e ne registrò memoria, Marco Antonio Michiel nel 1530 a soli vent’anni dalla morte dell’artista: "el paeseto in tela cum la tempesta, cum la cingana et soldato, fu de mano de Zorzi da Castelfranco". La prima fotografia, il lampo nel cielo colto nell’istante in cui appare, rendono luminose e spettrali le architetture sul fondo. Un fulmine, l’avviso della tempesta imminente, in una città che non è difficile identificare nella stessa Castelfranco, subito di là del ponte di legno. Da molto tempo penso che la lettura più pertinente sia proprio quella impressionistica, che fa riferimento alla "tempesta", la cui evidenza meteorologica ha lo stesso peso dei due umani protagonisti. Il fulmine nel cielo nuvoloso sopra la città, quel lampo di luce strisciante sulle case è il tema sostanziale ed è colto con la stessa velocità nel tempo in cui si manifesta: un’istantanea fotografica che corrisponde al «momento decisivo» evocato da Cartier Bresson, in contraddizione con l’atteggiamento "in posa", quasi per evidenziare il contrasto, dei due personaggi. Paesaggio puro dunque, ma in un momento determinato, in cui la nostra attenzione è improvvisamente destata da quella irruzione imprevedibile e aleatoria che rappresenta la vera, sostanziale originalità di quella veduta. In quel "puro" paesaggio vi sono, senza significati allegorici, un soldato e una zingara. Niente di più che un soldato e una zingara.
Ma bastano pochi anni, meno di quaranta; e nel primo inventario del 1567-1569 del "camerino" di Gabriele Vendramin, il dipinto è descritto come "un altro quadro de una cingana e un pastor in un paesetto con un ponte con suo forni mento de noghera con intagli et pater nostri doradi de man de Zorzi de Castelfranco". Distanziandosi dal tempo in cui fu concepita e primamente vista da un testimone, collezionista e cultore d’arte, come Marco Antonio Michiel, che poteva perfino avere conosciuto Giorgione, si disperdono alcuni dati precisi (il soldato diventa "pastor"), e non sembra più rilevante fare riferimento a "la tempesta", che invece è l’elemento chiave del dipinto, tanto da fornire la denominazione che alla fine ha prevalso.
Ecco ora La tempesta lampeggiare in Palazzo Grimani accompagnata dalla Nuda del Fondaco dei Tedeschi e dalla Vecchia, in trasferta temporanea dalle Gallerie dell’Accademia continuamente stravolte dai lavori di restauro. È importante vederle nella tranquillità delle stanze di un palazzo, luogo destinato a ospitare collezioni di sculture antiche e dipinti, con un camerino che richiama quello di Gabriele Vendramin. È l’occasione di una caccia al tesoro nelle stanze del palazzo, della contemplazione delle opere di Giorgione a Venezia in occasione del quinto centenario della morte dell’artista, e della scoperta di Palazzo Grimani con le sue singolari e sofisticate decorazioni. Dopo i febbrili studi della recente mostra di Castelfranco questo omaggio al Giorgione a Venezia è il primo della serie di appuntamenti con capolavori di grandi maestri in Palazzo Grimani.
Per questa occasione, con la quale si apre la mia attività di Soprintendente ai Musei e alle Gallerie Statali della Città di Venezia, è sembrato conveniente ripubblicare gli ultimi significativi saggi di Carlo Falciani e di Rossella Lauber.

Non diversamente per La nuda del Fondaco dei Tedeschi e per La vecchia si riproducono le schede di Sandra Rossi e Giovanna Nepi Scirè concepite nell’attività istituzionale della Soprintendenza per la mostra "Giorgione. Le maraviglie dell’Arte" alle Gallerie dell’Accademia tra il novembre del 2003 e il febbraio del 2004.

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