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Alla Casa Bianca si aggira lo spettro di Carter

Il fantasma del presidente che fallì negli anni '70 ricorda a Obama che la stagione delle parole è finita

Alla Casa Bianca si aggira lo spettro di Carter

di Claudio Siniscalchi

Un fantasma si aggira da qualche tempo alla Casa Bianca. È il fantasma di Jimmy Carter. Carter è stato il trentanovesimo presidente degli Stati Uniti. Democratico, sempre allegro, ricco sfondato e buono come il pane, ottimo giocatore di golf, alla pari di Barack Obama sapeva tenere sermoni di altissimo livello. Per il Partito democratico fu prima il candidato di una storica vittoria, e poi quello di un'altrettanto storica disfatta. Andiamo con ordine. Batté il repubblicano Gerald Ford alle elezioni del 1976. Su Ford pesava il fardello di Richard Nixon. Infatti Ford era diventato presidente nel 1974, in quanto vice di Nixon, costretto alle dimissioni per lo scandalo Watergate.

La ferita del Vietnam, la durissima crisi industriale, la recessione, la disoccupazione a livelli stratosferici, il discredito caduto sui repubblicani, misero il vento alle ali di Carter. Vinse a valanga, come ha fatto Obama contro il povero John McCain. In campagna elettorale il sorriso smaltato di Carter promise di tutto. Non solo l'America, ma anche il mondo sarebbero stati riformati. Persino l'aria, giurò, sarebbe diventata più respirabile. Invece non cambiò un bel niente. La sua presidenza si rivelò grandiosa nelle aspettative, alle quali seguirono grandiose delusioni.

Il presidente della rivincita democratica non ne azzeccò una, e finì umiliato nel tentativo di mostrare i muscoli, quando l'operazione militare per liberare gli ostaggi dell'ambasciata americana a Teheran, tenuti prigionieri dal nuovo governo dell'Iran, retto dall'Ayatollah Khomeini, fallì miseramente. Il blitz aveva un nome grintoso: "Artiglio dell'aquila". Si rivelò una scorribanda di polli. I democratici, annusata la catastrofe imminente, provarono a scalzare Carter nella successiva consultazione presidenziale.

Ma il presidente uscente superò sul filo di lana Ted Kennedy alle primarie. Quindi andò allo scontro con il repubblicano Ronald Reagan nel 1980. Una valanga seppellì le aspirazioni di Carter. Un massacro elettorale di proporzioni bibliche.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca non ha mai fatto mistero di ammirare Carter. I due hanno, tranne lievi differenze, la stessa visione del mondo. Anche in fatto di religione il battista Carter e il protestante Obama sono orientati sulla stessa linea d'onda. Ma Carter, come dicevamo, è accompagnato da un fantasma. Il fantasma della débâcle politica. E Obama, esauritasi rapidamente la luna di miele della grande rivoluzione democratica, da un po' di tempo ha sonni tormentati. I sondaggi di gradimento al suo operato da mesi indicano il basso. Tutti si dichiarano delusi dall'azione di Obama, durante il primo anno di presidenza. Uomini e donne, giovani e vecchi, tradizionalisti e progressisti, bianchi e neri, occupati e disoccupati, democratici repubblicani e senza partito. Obama aveva promesso una drastica inversione di tendenza sul piano climatico. Disattesa.

Aveva promesso la fine della guerra e l'impiego delle risorse economiche in investimenti sociali. Disattese entrambe. Aveva promesso un nuovo dialogo con l'Islam. Disattesa anche questa promessa, con i toni minacciosi di guerra (più o meno dello stesso tono del guerrafondaio Bush) contro il terrorismo internazionale. Aveva promesso la riforma del sistema finanziario, e non ha riformato niente. L'unica promessa in via di arrivo, ma molto molto annacquata, è la riforma sanitaria. Ed è ancora da capire come sarà strutturata. Insomma, l'uomo del secolo, del millennio, si sta rivelando un politico capace di suscitare grandi entusiasmi a chiacchiere, ma in realtà assai debole nella pratica governativa. Gli hanno assegnato il Nobel della pace, più sulla fiducia che non in base a fatti concreti. Si è recato a Stoccolma per tenere un nobile discorso, giustificando però il diritto alla guerra, inalienabile e unilaterale. Sicuramente gli sarebbe andato a pennello il premio dell'anno all'uomo "delle grandi promesse e delle vaghe risposte".

I repubblicani dal pensiero più affilato, come Robert Kagan, lo accusano di essere diventato l'amministratore unico del declino americano, e il campione del disimpegno nella lotta per la libertà, deciso a non ostacolare le sgomitate planetarie di Cina e Russia. È presto, a un solo anno di governo, per capire come passerà alla storia la presidenza Obama. Il predicatore Barack Obama, un anno fa, affrontava i gradini di una qualsiasi tribuna, prima di parlare al microfono, rapido, deciso, sorridente. Poi partiva il sermone, condito da buon senso ed eccellenti intenzioni. Basta con la guerra, costruiamo ponti e asili, aiutiamo i deboli. Magari ci inzeppava qualche ricordo degli insegnamenti della madre, o della nonna, che gli hanno trasmesso i valori dell'amore, educazione e, soprattutto, speranza.

Sul limbo dorato della speranza, Obama non lo batte nessuno. Adesso che la stagione dei sermoni domenicali è finita, la musica sembra essere tutt'altra. Il fantasma di Jimmy Carter è lì a ricordarglielo. Più tempo passerà alla Casa Bianca, più sarà difficile per Obama non seguire il destino del suo illustre e incapace predecessore. Bill Clinton ci mise poco a sbarazzarsi del fantasma: fece il contrario di quello che aveva promesso.

E governò otto anni.

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