Chissà che cosa ne avrebbe detto Pier Paolo Pasolini. Il sospetto è che il poeta avrebbe guardato con simpatia alla richiesta leghista di valorizzare il dialetto nelle scuole. E non solo perché lautore delle «Ceneri di Gramsci» e di «Ragazzi di vita» scrisse molto in dialetto e sul dialetto, e fu poeta dialettale ma anche studioso e critico della letteratura dialettale. Ma anche perché lintroduzione nelle scuole del dialetto fu una sua preoccupazione costante, dagli anni 40, quando provò senza successo ad aprire un istituto per linsegnamento del friulano, al 1975, lanno della morte, quando tenne a Lecce una conferenza sul tema, appunto, «Dialetto e scuola». Nella giovinezza, per Pasolini il dialetto è il friulano imparato dalla madre insegnante e dalla frequentazione di Casarsa. Nel 1943 decide di aprire una scuola per linsegnamento di questa lingua. Ma il provveditorato agli studi di Udine si mette di traverso e lui è costretto a rinunciare, ripiegando, due anni dopo, sull«Academiute di lenga furlana», una sorta di laboratorio linguistico con ambizioni non più pedagogiche ma critico-letterarie.
Dal friulano delle poesie della giovinezza, Pasolini passò in seguito al romanesco di «Accattone» e di «Una vita violenta», al napoletano del «Decameron», allabruzzese del «Vangelo secondo Matteo»... Ma non basta. Nel suo «Diario di un insegnante» si legge la convinzione che il dialetto - per Pasolini, garanzia di autenticità - non dovesse essere tenuto fuori delle scuole. Tanto che proprio in una scuola, il liceo classico «Giuseppe Palmieri» di Lecce, accettò di prendere parte a un corso di aggiornamento per docenti, organizzato dal ministero della Pubblica Istruzione e dedicato al tema «dialetto e scuola». Era il settembre del 1975, meno di due mesi prima della morte.
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