Gian Maria Bavestrello
Nei secoli in cui economia e sussistenza erano sinonimi, fu il frutto che dettò le leggi dell'insediamento umano e dell'alimentazione nelle valli genovesi. Bollite, essiccate, arrostite o sfarinate a seconda delle varietà, le castagne permettevano, soprattutto, una panificazione tanto più preziosa quanto più limitate erano le produzioni di cereali. Poi, da che il palato e la mente della società del benessere hanno scoperto il gusto della civiltà contadina e della geografia, sono state sottratte al vocabolario della povertà divenendo varianti gastronomiche ad uso di tutti i ceti. Da surrogato - e alimento base - ad ingrediente edonistico: un destino che le accomuna a legumi, pesci, erbe aromatiche, nostralini, a tutti quei cibi e bevande che fanno bella mostra nei tanti locali tipici disseminati da Ventimiglia a Sarzana. Dalle paste - un tempo considerate tanto miserevoli ch'era del tutto sconveniente offrirle a un ospite - alle minestre, dalle creme alle carni ripiene e al castagnaccio - dolce il cui suffisso tradisce il conflittuale sentimento con cui era accompagnato alla bocca -, i menù e i ricettari raccontano abbondantemente gli usi ingegnosi e i valori essenziali della castagna, la cui raccolta coincide con la «grida» del passaggio dall'estate all'autunno, dall'ultima calura al primo freddo, esorcizzato proprio con la sua particolare palatabilità e dolcezza mascolina, tenue, abbozzata. Che si oppone alla progressiva letargia decretata dal clima via via più rigido e inflessibile, affiorando dall'aroma delle caldarroste cotte nella peculiare padella di ferro con il fondo forato.
È così che la castagna sa essere stimolo a momenti di autentica partecipazione popolare che risalgono, insieme ad essa, sentieri di boschi pullulanti di odori acri eppur gentili, colori accesi e curiosi suoni di vita animale. Lo testimoniano le decine e decine di sagre che si svolgono in tutta la regione, ottobrine occasioni di festa e convivialità i cui echi giungono fino agli abitanti delle città costiere. Che non mancano mai di far tappa nelle più diverse vallate, dove l'educazione, la pulizia, l'ospitalità e la bellezza si sono rifugiate dopo essere state esiliate dalla sporcizia e dal disordine cittadino. Altri i tempi in cui un portamento civile si definiva urbano in opposizione ai rozzi e selvatici costumi rustici. Dalla civiltà - rude e poverissima - della castagna, alla castagna come indice di civiltà. E di raffinatezza gastronomica a tutto pasto. Se la storia procede per rivincite, non è casuale l'odierna usanza di ideare forme di tutela e valorizzazione della pianta, del frutto e dei metodi tradizionali di essiccazione, come quello che sopravvive a Calizzano e Murialdo (ma anche a Osiglia, Bardineto e Massimino), in Alta Val Bormida, sottoposto alle cure di «Slow Food». La celebre associazione di cultura agro-alimentare lo ha rubricato alla voce «presidio», etichetta riservata a quelle produzioni che urge salvare dall'estinzione. Lì, le castagne - di varietà prevalentemente gabbina - sono ancora essiccate tra i fumi dei tecci, caratteristici locali in pietra con il tetto di scandole, divisi in due dalla graia, un soffitto di graticci in legno. E, in occasione del Natale, lessate cinque ore sotto un peso che le mantiene completamente immerse nell'acqua affinché maturino un caratteristico sapore di frutta candita.
Castagneti, mulini, tecci, solai di casa adibiti all'essicazione e attività artigianali ad essa votate: la castagna colonizzò la montagna ligure, amministrandola con una saggezza dispotica ma illuminata, capace di creare un patrimonio ambientale e di spaziare dalla cucina a una medicina popolare ricca di foglie e cortecce. E la saggezza, di questi tempi, è merce che non va sprecata. Come si dice del maiale - e del castagno stesso -, non se ne butta via niente.
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