Non sono i tempi biblici di Edi Pinatto, il giudice-lumaca per antonomasia che per scrivere una sentenza ha impiegato ben otto anni, e infatti, unicum nel panorama delle toghe che di solito si salvano a vicenda, è stato condannato (otto mesi, pena sospesa) e radiato dall’ordine giudiziario. Lui, Alfredo Gari, presidente aggiunto dei Gip di Catania, non ha depositato le motivazioni del verdetto di condanna di nove presunti affiliati a una potente cosca mafiosa etnea, quella dei Laudani, dopo un anno e quattro mesi. Un tempo relativamente breve vista la lentezza cronica della giustizia italiana, ma troppo lungo per chi, nel frattempo aspettava in carcere. E infatti i nove, accusati a vario titolo di mafia, detenzione di armi e estorsione, sono stati scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare. Con buona pace di una giustizia che sa essere velocissima in alcune occasioni - vedi l’accelerazione impressa a Milano ai processi che riguardano il Cavaliere - ma che poi non sta attenta a tenere in cella i delinquenti.
Un brutto episodio, fotografia di un sistema giudiziario che proprio non va. L’ennesimo brutto episodio perché non sono pochi, in tutta Italia, i casi di omissioni e ritardi di magistrati che vanificano la fatica di inquirenti e forze dell’ordine, e che in definitiva mettono a repentaglio la sicurezza, quando poi mafiosi e delinquenti tornano in libertà, come nel caso Pinatto e come in questo caso. Di solito la giustificazione - generalmente accolta anche dal Csm che infatti quasi mai sanziona in modo severo i ritardatari - è quella delle carenze di organico degli uffici, che finiscono col comportare per il giudice un carico di lavoro eccessivo. E anche questo caso non fa eccezione. «La scarcerazione di questi imputati – ammette il giudice Gari – è da addebitare a una mia mancanza e mi brucia moltissimo. Ma c’è un problema di sostenibilità di lavoro, miracoli non ne possiamo fare. È stata una defaillance, ma la prima in 40 anni di carriera. Ho quasi 70 anni e non riesco più a fare sempre nottate come un tempo, l’organico dei gip e all’osso. La mole di lavoro è enorme, e il tempo corre».
Il solito refrain. Secondo il magistrato, comunque, la sua negligenza non ha causato danni irreparabili, visto che i nove scarcerati, condannati in primo grado proprio da lui, col rito abbreviato, il 21 giugno del 2010 a pene comprese tra i tre anni e quattro mesi e otto anni e otto mesi, resteranno comunque in libertà vigilata: «Sono stato travolto – spiega il giudice a Repubblica Palermo – da altri fascicoli a cui ho dovuto dare la precedenza, ma credo che nonostante la scarcerazione di questi soggetti, la situazione sia sotto controllo, ho firmato provvedimenti di libertà vigilata su richiesta della Procura». Una toppa per limitare i danni che però non basta a scongiurare eventuali procedimenti disciplinari. Il ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, ha avviato la procedura per un’ispezione. Un’iniziativa, spiega una nota del dicastero di via Arenula, che «si è resa necessaria per verificare i motivi che hanno portato alla scarcerazione dei nove imputati, per i quali il ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza ha provocato la decorrenza dei termini di custodia cautelare».
Annus horribilis, il 2011, per il giudice Gari, magistrato di lungo corso con una passione per il teatro che lo vede anche autore (con la moglie Rita) e regista col nome di Edo Gari. Segnato dalle polemiche per un altro delicatissimo caso approdato nel suo ufficio, la famosa inchiesta Iblis che, prima dello stralcio con derubricazione del reato a voto di scambio, vedeva indagati anche il governatore siciliano Raffaele Lombardo e il fratello deputato Mpa, Angelo Lombardo.
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