La Cattedrale di Mogadiscio rifugio dei dannati di Somalia

Un uomo scende i ruderi della scalinata. Tra le braccia regge una stuoia avvolta intorno ad un fantoccio d’ossa e pelle. È quel che resta di suo figlio Hamza Ali Faysal. Aveva 3 anni. È morto di malattie e stenti tra i ruderi della cattedrale italiana. Quando nel marzo 1929 celebrarono la prima messa le sue tre arcate e i suoi due campanili di 37 metri erano il simbolo della presenza italiana. Oggi è rimasto ben poco. L’orrore incominciò il 9 luglio 1989. Quel giorno un gruppo armato crivellò di colpi il vescovo Pietro Salvatore Colombo proprio mentre celebrava messa. Da allora la vecchia cattedrale ha visto solo saccheggi, distruzione ed abbandono. Oggi le vestigia di quelle navate ed archi scoperchiati sono un immenso campo profughi a cielo aperto.
«Arrivano a Mogadiscio da tutte le parti della Somalia... la cattedrale, il campo sportivo e qualsiasi altro luogo delimitato diventano il posto naturale dove attendere gli aiuti», spiega Ettore Mazzanti. Ha 46 anni ed è appena rientrato da Mogadiscio, dove si è occupato del coordinamento medico per conto di Medici Senza Frontiere. Per un mese quella cattedrale ed il suo popolo di sfollati sono stati al centro delle sue preoccupazioni. «Oggi lì attorno campeggiano 240 famiglie per un totale di circa 1500 persone. Vivono in tende di fortuna, quattro teli piantati tra le macerie e un telo avvolto intorno per ripararsi. Il problema maggiore là attorno sono la mancanza d’acqua e l’assenza di latrine. Chi deve fare i propri bisogni li fa in una fossa a pochi metri da dove vive. Per riempire una tanica bisogna fare anche dieci chilometri. In una situazione del genere i più esposti alle malattie e alla mortalità sono i bambini. Ma lavorare là dentro è quasi impossibile. Per riuscire ad intervenire con relativa sicurezza bisogna convincerli a uscire da quei ruderi per consentirci di vaccinare i bambini contro il morbillo, trattare quelli colpiti dalla malnutrizione ed assistere donne ed anziani».
L’ex cattedrale è solo uno dei gironi di un inferno trasformatasi da città di prima linea in epicentro della fame e del saccheggio. «All’inizio di agosto la città era divisa tra gli shebab (i gruppi armati qaidisti) e il governo di transizione e i caschi blu dall’altra - spiega Mazzanti -. Quando gli shebab se ne sono andati la città è diventata il polo d’attrazione per profughi in fuga dalla siccità e dalla carestia del sud. Vengono a Mogadiscio perché sanno che ci sono gli stranieri, perché ad agosto con l’occasione del “ramadan”, il mese sacro dell’Islam dedicato tradizionalmente alla carità, i volontari islamici sono confluiti nella città».
Si calcola che solo ad agosto le zone meridionali, più colpite dalla siccità, abbiano riversato nella capitale più di 100mila sfollati. L’alta concentrazione di organizzazioni umanitarie non sempre facilità gli aiuti. Molti gruppi arabi o islamici acquistano direttamente i generi alimentari al mercato della capitale contribuendo ad innalzare i prezzi e rendendo proibitiva la vita dei residenti. I gruppi fuorilegge e molti clan in grado di controllare un arsenale si contendono con le armi gli aiuti alimentari.
«Noi di Msf andiamo dove non operano gli altri grandi gruppi occidentali, anni fa in Somalia abbiamo perso un collega della sezione olandese, ma di fronte ad una situazione così drammatica – spiega Ettore Mazzanti - era impossibile restare lontani. Lavorando dall’inizio di agosto e non spingendoci al di fuori di alcune zone abbiamo già vaccinato oltre 30mila bambini contro il morbillo. Ma non è finita.

Il morbillo in situazioni di malnutrizione espone i bambini al rischio di contagi secondari, ne abbassa le difese immunitarie e si trasforma in un’implacabile malattia killer. Se si fermano le vaccinazioni un bambino su quattro rischia di non sopravvivere all’emergenza».

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