Quando nel 1972 assegnarono il Booker Prize al suo G. - una delle più belle variazioni letterarie su Casanova, pari a quelle di Schnitzler e Sándor Márai, e tra i più coinvolgenti romanzi sul desiderio sessuale maschile - lui, alla premiazione, disse: «Per il mio progetto sui lavoratori migranti d’Europa ho bisogno di avere più soldi. Il movimento delle Pantere Nere ha bisogno di soldi per il suo giornale e per le sue altre attività. Dividere il premio significa avere gli stessi obiettivi. La chiarezza è più importante del denaro». E fu così che divise il suo premio, già allora una bella cifra in decine di migliaia di sterline. John Berger, nato nel 1926 a Londra, è fatto così. Non a caso uno dei suoi maestri è Victor Serge («Lo sto rileggendo in questi giorni, ci racconta Berger. Memorie di un rivoluzionario e Il caso Toulaev. Grandissimo scrittore. Sto riprendendo anche il vostro Rocco Scotellaro, per cui ho sempre nutrito molto interesse»).
Persino i titoli dei libri di Berger (romanzi, saggi, racconti, articoli, spesso sul mondo dell’arte e della comunicazione) parlano da sé e nello stesso tono della dichiarazione del Booker Prize. Ascoltateli: Una volta in Europa, Lillà e Bandiera, Le tre vite di Lucie (cioè la trilogia Into Their Labours, dedicata al mondo contadino), E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Festa di nozze, Sacche di resistenza, Qui è dove ci incontriamo, Abbi cara ogni cosa e infine Presentarsi all’appuntamento (appena pubblicato da Scheiwiller), a cui vogliamo aggiungere Da A. a X. Lettere di una storia (sempre Scheiwiller) e il titolo in uscita a settembre per Corraini: Distendersi a dormire, scritto insieme alla figlia Katya: li potete incontrare entrambi al Festival di Mantova. Troviamo - in questi titoli - una intransigenza sentimentale che permane anche una volta finita la lettura: a Berger si arriva, ma si torna anche, nei momenti difficili. La sua autonomia di pensiero è la stessa di Charles Ferdinand Ramuz, per esempio, o di altri scrittori «di montagna». Di fatto, John Berger vive a Quincy, nella Savoia Francese.
Perché questo “ritiro”, da trentacinque anni?
«Volevo capire il lavoro dei contadini per scrivere la mia trilogia e mi sono ritrovato qui, a ottocento metri di altezza in un villaggio di cento persone. Sui contadini si è scritto poco, sebbene formino la maggior parte della popolazione mondiale, che siano o meno proprietari della terra che lavorano. Mi fa piacere che la trilogia sia stata tradotta in Cina, America Latina, Turchia e in molti altri posti dove chiunque, anche i contadini, può leggerla e ritrovarcisi».
Spesso lei racconta qualche aneddoto della sua vita contadina persino negli articoli più “politici”...
«In questo momento la mia casa è circondata da mucche, fa caldo, ci sono molte mosche sul vetro delle finestre. Oggi pomeriggio andrò con un amico a raccogliere il fieno nei campi, per cui adesso, se aprissi la finestra, sentirei l’odore del fieno tagliato. Quattro giorni fa, per raccontarne un’altra, ero in un alpeggio a 1500 metri di altezza e c’era silenzio. Non era un silenzio assoluto - sentivo i campanacci delle mucche, alcune voci umane, canti di uccelli - ma era un silenzio... rassicurante. Un silenzio che può fare compagnia. Mi sembrano, questi, argomenti concreti, non astratti. Come vorrei fosse la politica».
Un metropolitano la vedrebbe diversamente, più cerebralmente.
«Libero di farlo. Ma aggiungo che non si considera mai abbastanza quanto la vita in montagna sia partecipativa, estremamente sociale. Quando ci si vede non si parla solo di che tempo farà in valle domani, ma anche di questioni politiche. Da questo punto di vista la città - che pure frequento, come Parigi - è in misura maggiore il luogo di una certa solitudine».
È anche il luogo di un certo deterioramento della qualità dell’osservazione. Uno dei temi del suo ultimo libro, sottotitolato Narrare le immagini.
«Premetto di non essermi mai considerato un critico d’arte o un esperto di mass media. Sono uno storyteller. Tuttavia è vero, l’osservazione, in campagna, è un’attività costante: si guarda in giro per vedere cosa porterà il vento, si osservano i raccolti per vedere come crescono, gli animali per vederne lo stato di salute. L’osservazione diventa così un dialogo. Le immagini che osserviamo in città, invece, sono una titillazione istantanea, un erotismo dell’attimo, sono basate sul concetto di istantaneità. Non sono né bidimensionali né tridimensionali, ma hanno un elevato potere di creare dipendenza».
Nelle metropoli si “vende” bene anche una certa arte basata sulla trasgressione. La recente polemica sul dito medio di Maurizio Cattelan...
«C’è un’arte che è morta nel momento stesso in cui viene creata. Ce n’è un’altra vibrante e viva anche a distanza di secoli. L’arte è un fenomeno che esiste da trentamila anni. Di solito evito di concentrarmi sugli ultimi dodici mesi».
Però lei è anche giornalista, scrive interventi che entrano nel vivo dell’attualità...
«Tra la fine dei ’40 e l’inizio dei ’50 lavorai con George Orwell al Tribune: quando gli consegnavo i miei pezzi dovevo stare a lungo davanti a lui a sentire come avrei potuto scriverli meglio. Ho imparato molto. Gli articoli che scrivo oggi hanno una forma autonoma rispetto al luogo dove vengono pubblicati: sono saggi brevi. Nascono perché incontro qualcosa davanti alla quale non posso restare zitto. Se lo facessi, l’umiliazione sarebbe troppo forte. Talvolta me li pubblicano talvolta no. Spesso li riscrivo cinque o sei volte, per ottenere i massimi livelli possibili di economicità e precisione.
Il suo prossimo libro?
«Le rivelo persino il titolo: Vuoi fare un giro, Bento? Bento è il diminutivo di Benedetto. Baruch. Cioè Spinoza. C’est tout».
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