Per celebrare l’Unità era meglio invitare anche i Savoia

Caro Granzotto, chiedo a lei una spiegazione perché probabilmente mi sono persa qualcosa della Storia d’Italia. Sto seguendo con interesse (a volte anche critico) il succedersi delle manifestazioni in corso per quello che viene unanimemente definito il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. In effetti oggi si fa riferimento a quanto avvenuto un secolo e mezzo fa, pochi mesi dopo lo storico incontro di Teano tra Giuseppe Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II in cui il dittatore pronunciò la celebre frase: «Saluto il primo re d’Italia». Non dell'Italia unita però. Perché all’appello, com’è noto, mancavano ancora vaste porzioni del nostro territorio, a cominciare da Roma e dallo Stato Pontificio. Ed eccoci al punto. Nel 1911, con Roma ormai da tempo capitale, le cronache parlano di importanti festeggiamenti per ricordare (correttamente) «il cinquantesimo anniversario del Regno d’Italia». Cinquanta anni dopo - ed è qui che, strada facendo, devo essermi persa qualcosa - ci siamo invece trovati inopinatamente a celebrare i cento anni dell’Unità d’Italia. Anticipando a mio avviso questa data di ben 47 anni. Perché, se non ricordo male, quell’obiettivo si raggiunse solo nel 1918 al termine della Prima Guerra Mondiale quando, con il sacrificio di centinaia di migliaia di morti, anche sul castello di San Giusto a Trieste e su quello del Buon Consiglio a Trento sventolò finalmente il Tricolore. Giovanna Sanguineti
Genova

Le sue osservazioni non fanno una grinza, gentile lettrice. Non una. Ma nel 1961, essendosi l’Italia ritrovata una repubblica, da monarchia che era, come potevamo titolare il centenario che seguiva al cinquantenario del 1911? Pensa che ti ripensa, venne fuori la formula «dell’unità d’Italia» e quella è rimasta anche per il cento e cinquantenario. Lo stratagemma, l’impapocchiamento di fatti e di date - è evidente che nel 1861 non si poteva parlare di unità, ma caso mai di lavori in corso - ha potuto affermarsi e diventare una “verità” perché di massima noi italiani di storia patria sappiamo poco o nulla. Avrà sentito, ridendone, che interrogati su cosa successe in quel fatidico sabato 16 marzo 1861 molti parlamentari non hanno saputo rispondere. Figuriamoci il cittadino comune. Grazie all’ignoranza, dunque, la storia che nel ’61 fu fatta l’unità d’Italia è stata bevuta. A garganella. Meglio così, anche perché quella data ha sempre creato imbarazzo: come lei e pochi altri sanno, gentile lettrice, vi si promulgò una legge di un solo articolo: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia». Tenendosi il numerativo «secondo», Vittorio Emanuele volle sottolineare di non essere né sentirsi il primo re d’Italia, ma il re di Sardegna che diventava re d’Italia (ancorché monca). Questa circostanza e la preminenza della Corona sulla volontà popolare (manca, nella legge ora citata, il classico riferimento «per grazia di Dio e volontà della nazione») ha indotto l’Italia repubblicana a stare sul vago, lasciando che si credesse che il 17 marzo dei generici «padri della Patria» tennero a battesimo l’Italia una e indivisibile. Peccato che per attenersi a questa visione laica dei fatti, nessun membro di Casa Savoia - la protagonista assoluta di quel 17 marzo 1860, il marchio di fabbrica del Risorgimento e dell’Unità - sia stato invitato alle celebrazioni ufficiali. Si dirà che Vittorio Emanuele IV o il suo figliolo, il ballerino Emanuele Filiberto, sono impresentabili, e questo è vero. Ma ci sono altri Savoia, e tutti molto presentabili. Sergio Romano, sul Corriere, ha fatto il nome di Amedeo di Savoia Aosta. Suggerimento assolutamente condivisibile.

Anche Maria Gabriella, che si dedica alla Fondazione e all’archivio di casa Savoia, avrebbe ben rappresentato la dinastia che ci diede l’Italia. E non credo che il presidente Napolitano si sarebbe sentito a disagio nell’avere al suo fianco una principessa di quella cultura, di quel fascino e di quel garbo.
Paolo Granzotto

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