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Celle piene, ma importiamo detenuti stranieri

La Consulta dà la mazzata finale all’emergenza sovraffollamento dei penitenziari: i cittadini comunitari che hanno commesso reati nel proprio Paese potranno scontare la pena da noi. Naturalmente con l’indulto. Il rischio di attirare il "turismo carcerario"

Celle piene, ma importiamo detenuti stranieri

Scoppiano le 206 prigioni italiane, dove quasi un terzo dei detenuti è straniero. Il governo lancia appelli all’Ue e cerca soluzioni all’emergenza, dal piano per costruire nuovi penitenziari al provvedimento «svuotacarceri», agli accordi con gli Stati stranieri perché riprendano nelle loro celle i connazionali delinquenti. E in tutto questo la Corte costituzionale che fa? Con una sentenza, che ancora non è pubblica, apre le porte delle nostre prigioni già al collasso anche agli immigrati comunitari che hanno commesso reati in patria e lì sono stati condannati. Basta che abbiano non la cittadinanza italiana, ma solo la residenza o la dimora nel nostro Paese. E questo per evitare ogni «discriminazione» e favorire il «reinserimento sociale» dei detenuti all’uscita dal carcere.
Per di più, gli stranieri avrebbero tutto l’interesse a scontare la pena da noi, visto che una sentenza della Cassazione nel 2009 ha affermato che anche ai comunitari, come agli italiani, bisogna applicare lo sconto di pena di 3 anni concesso dall’indulto del 2006. Ce n’è abbastanza per prevedere un fenomeno di «turismo carcerario».
Ma partiamo dall’inizio. La pronuncia della Consulta riguarda il mandato d’arresto europeo e le procedure di consegna dei ricercati tra gli Stati Ue. Dichiara, accogliendo il ricorso della Cassazione, che è costituzionalmente illegittimo l’articolo 18 della legge 69 del 2005, nella parte in cui stabilisce che i magistrati d’appello possono decidere che la pena sia scontata nel nostro Paese solo se la persona ricercata è cittadino italiano.
Cancellata questa riga della norma, appena sarà pubblicata la sentenza sarà immediatamente esecutiva e produrrà i suoi effetti. I giudici costituzionali avrebbero potuto bocciare l’articolo e rinviare al parlamento l'onere di stabilire le nuove regole, ma hanno voluto chiudere la questione. E senza restringere affatto il numero degli immigrati beneficiari. Non hanno infatti fissato particolari requisiti, come ha fatto ad esempio la legge olandese, aprendo le porte solo agli stranieri che abbiano almeno da 5 anni la residenza.
La vicenda è quella di un polacco che nel 2003 è stato condannato definitivamente in patria a 3 anni e 6 mesi, per concorso in due rapine in altrettanti negozi, con violenza alle persone, uso di armi da fuoco e di fiamma ossidrica.
Il tribunale polacco ha emesso nei suoi confronti un mandato d’arresto europeo, perché si sarebbe volatilizzato dopo aver scontato neppure 5 mesi. L’uomo era stato arrestato in Italia e nel 2009 la Corte d’appello di Roma ha deciso di consegnarlo alle autorità polacche, affermando che la legge escludeva che uno straniero residente nel nostro Paese potesse espiare qui la pena.
Ma a questo punto c’è stato il ricorso in Cassazione, sulla base di un’interpretazione della legge europea che renderebbe l’immigrato Ue «assimilato» al cittadino di uno stato membro dell’Unione in tutto e per tutto.
Una serie di sentenze della Corte suprema in passato hanno escluso l’applicabilità allo straniero residente in Italia della norma che prevede, per il destinatario di un mandato d’arresto europeo, la possibilità di scontare la pena nel nostro Paese. Ma stavolta alla Cassazione sono venuti dei dubbi e si è rivolta alla Consulta. In 4 ordinanze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma in questione, perché sarebbe in contrasto con un atto dell’Unione europea. Si sottolinea che la Corte di giustizia europea affrontato il tema del rifiuto della consegna di un ricercato nella sentenza Wolzenburg, sostenendo che esso si basa sulla possibilità di favorire il reinserimento sociale del condannato una volta scontata la pena.
Paradossalmente, il cittadino polacco nel frattempo ha dichiarato alla Corte d’appello di Ancona di non opporsi alla sua consegna ai giudici del suo Paese, dove vivono la figlia di 16 mesi, la convivente e tutta la sua famiglia. Ha dimostrato così che le sue radici rimangono in patria e ha detto di voler rinunciare all’eventuale udienza di fronte alla Consulta. Ma ormai la macchina è in moto e non si ferma. Di questo beneficeranno in molti, tra i ricercati stranieri.
La Corte costituzionale prende atto del fatto che il polacco ha residenza in Italia e stabilisce che non ci può essere discriminazione tra cittadini Ue.
Dunque, anche per i condannati da un altro Paese membro, per un reato che non hanno commesso in Italia ma in patria, i magistrati italiani potranno opporre il rifiuto della consegna legato al mandato d’arresto europeo.
Quanti saranno i nuovi detenuti nessuno lo può prevedere, ma ad attrarli c’è certo la sentenza 2292 della Cassazione, che riguardava un francese condannato in patria.


«Anche nel caso - si legge nelle sue pagine- di esecuzione nello Stato italiano di pena inflitta con sentenza di altro Stato Ue, a seguito del rifiuto di consegna, è applicabile il condono concesso con la legge 241 del 2006».

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