Politica

La Cgil ora diventa paladina dei «poveri» istituti di credito

Milano Questa non l’avevamo ancora sentita. A lanciare una sorta di irrituale quando risibile «banchieri di tutto il mondo unitevi» è la Cgil, proprio il più rosso dei sindacati italiani. Che per bocca del suo segretario confederale, Nicoletta Rocchi, si è schierata al fianco di questi neo diseredati - un inedito Quarto Stato che avanza compatto in grisaglie di sartoria e cravatte Marinella - contro i minacciosi attacchi rivolti loro dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Il quale, a dar retta alla Rocchi, «si copre le spalle con un populismo “peloso”. Attacca le banche, ma l’obiettivo è quello di metterci le mani sopra. E questo - ha chiosato la paladina degli indifesi Passera, Profumo e via contando (i bonus) - non è possibile».
Ma mentre la dirigente della Cgil puntava il dito contro la presunta “voracità” del ministro, da altri tre suoi colleghi, in rappresentanza di altrettante sigle, giungevano messaggi di tono decisamente diverso, se non opposto, dimostrando una volta di più che il ricordo dell’antica unità sindacale è ormai ben più pallido di un Pierrot. Così Annamaria Furlan, segretario confederale Cisl, ha affermato che il sistema creditizio «che tanto è stato responsabile rispetto alla crisi economica, altrettanto deve esserlo ora nel dare un contributo molto più significativo di quanto fatto negli ultimi mesi in termini di sostegno alle famiglie e alle imprese, in particolare a quelle medio piccole», dato che quello fornito negli ultimi anni e mesi «è stato insufficiente».
A suonare la campana della Uil è stato il segretario confederale Lamberto Santini, secondo il quale «le banche dovrebbero ragionare in prospettiva», cogliendo «l’opportunità che offre la crisi, quella di mostrarsi come una realtà produttiva con l’anima e non come un’entità che si limita a gestire i soldi disponibili». Come a dire che di anima ce n’è poca, dietro agli sportelli. Da parte sua, il segretario confederale dell’Ugl, Cristina Ricci, dopo aver definito «giusto e necessario» il duplice richiamo alle banche fatto da Tremonti dal G20 di Londra e ribadito poi al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, ha aggiunto che «ci saremmo aspettati un atteggiamento di maggiore onestà, se non di autocritica, dalle banche». Alle quali ha chiesto anche «uno sforzo in più per venire incontro alle difficoltà delle imprese e delle famiglie».
Così, forse ignaro che l’eco delle sue parole stesse scavando ancor più i solchi che lacerano il fronte sindacale, ieri Tremonti discettava a Milano sia su tempi e modi dell’uscita dell’Europa dalla crisi, sia di quale sia oggi la «vera questione» del nostro Paese. Individuandola nella «questione meridionale che - ha detto - è questione nazionale e parte dal federalismo fiscale». Riforma, ha sottolineato, «che non è progetto di parte, bensì la madre di tutte le riforme, la riforma delle riforme». Questo perché, ha spiegato, non è pensabile una moralità dell’azione pubblica se non c’è anche responsabilità fiscale». Il problema non è infatti «rendere più produttivo il Nord, ma pensare a come far risalire la parte meridionale del Paese ai livelli del Nord». Nonché «tenere insieme l’Italia in una logica di legalità democratica e repubblicana».
Poi un salto dall’Italia all’Europa, dal federalismo alla crisi. Non a caso. Tremonti interveniva ieri all’università Bocconi, insieme con l’esponente del Pd Enrico Letta, a un dibattito in occasione della presentazione del libro Lezioni per il futuro. Che ha come sottotitolo, appunto, Le idee per battere la crisi. «La crisi non è finita, ma è stata evitata la catastrofe» grazie alla governance avviata insieme da tutta l’Europa, ha detto il ministro, ricordando come «lo scorso autunno si pensava a una rottura del sistema che avrebbe portato gli effetti di una guerra senza averla combattuta».
Quasi come un’eco, da Basilea arrivavano le parole del presidente della Bce, Jean Claude Trichet, che bilanciando anche lui ottimismo e prudenza, sosteneva che ora le prospettive globali sono «migliori del previsto».

E che se «probabilmente l’economia mondiale è uscita fuori dalla fase peggiore, permangono fattori che ci confermano di dover essere cauti, perché non è escluso che la strada da percorrere sia ancora accidentata».

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