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Che tristezza se lo Stato fa il notaio dei sentimenti

È giusto che ci sia per chiunque la massima libertà di scelta con l’unico limite invalicabile che essa non rechi però danni ad altri e possibilmente a se stessi.
Uguale rispetto anche per le scelte che prescindano da una morale naturale cristallizzata dai secoli e da istituti che pretendano di regolare comportamenti e usanze tradizionali. Persino le scelte in un certo senso trasgressive possono considerarsi legittime se ispirate a sincerità di intenti e di sentimenti e prive di gravi conseguenze collaterali. Esse sono anzi degne di rispetto per il loro anticonformismo sofferto e coraggioso, talvolta temerario fino a sfiorare l’eroismo e rappresentano il primato del sentimento e della passione nei rapporti umani.
Quel che tuttavia provoca una certa perplessità è che per ogni scelta fuori della tangente ordinaria si pretenda compenso e protezione da parte dello Stato e inquadramento notarile e anagrafico nel tessuto sociale.
Tutto ciò toglie a tale tipo di scelta il suo valore ideale e lo imborghesisce. Per esempio, Pacs e Dico sono frutti della sindrome del «come se» sempre più dilagante in molti fenomeni della vita moderna. Si invoca una liberazione dai vincoli più o meno indissolubili del matrimonio religioso o civile fondato sulla coppia uomo-donna finalizzato anche alla procreazione e alla protezione della eventuale prole, ma si pretende il «come se», un surrogato cioè che garantisca diritti depurati da doveri.
Di questo passo si potrà pretendere per ogni nostra scelta personale una legislazione ad hoc, affidando a governo e Parlamento la soluzione di problemi spesso privati e intimi. In governo e Parlamento, si sa, confluiscono punti di vista e ideologie in continua opposizione e contrasto tra loro, per cui il rimedio invocato sarà sempre il risultato di un compromesso.
Lo slancio ideale provocato dalla scelta ne esce pertanto ridimensionato, addirittura immeschinito. Per usare un linguaggio rozzo, ma efficace, pare che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca.
Libertà di scelta dunque con l’unico limite, come si è detto, di non danneggiare il prossimo e col coraggio civile di assumersene le derivanti responsabilità personali.

La Chiesa considera certe trasgressioni un peccato; per i credenti non sarà certo un decreto legge a farlo assolvere.
Meglio averne consapevolezza e patirne il tormento che ricorrere all’alibi di articoli del Codice al fine di godere i diritti civili previsti per le coppie regolari senza assumersene però impegni e oneri.

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