CHICAGO MAY La furia d’Irlanda

CHICAGO MAY La furia d’Irlanda

Chicago, 1892. Midway Plaisance, il viale che conduce alla fiera mondiale. La folla si assiepa in cerca di svago. In certe giornate qui si possono riunire oltre centocinquantamila visitatori. Vengono a vedere «Little Egypt», la danzatrice del ventre. E quel curioso marchingegno che simula un viaggio sulla luna. Ci sono così tante attrazioni. La gente è così piacevolmente distratta. Farsi notare non sembra facile, nemmeno per quella ragazza dal lussuoso cappellino, «la carnagione dalle delicate sfumature rosa e panna, i grandi occhi azzurri ombreggiati dalle lunghe ciglia e la bocca il cui labbro superiore formava uno squisito arco di Cupido». Farsi strada a passeggio, sfiorare la mano di uno sconosciuto dal raffinato soprabito di cashmere e sperare in un suo sguardo complice non è per niente facile, nemmeno per quella bellezza irlandese, anche se emana un fascino sensuale quasi doloroso.
Ma quando un uomo con un anello di brillanti al dito le mormora qualche parolina all’orecchio, ecco che la fanciulla, concentrata a contemplare il padiglione irlandese, si riscuote. Si volta. L’uomo è stupefatto del velo d’innocenza impresso, nonostante tutto, su quel volto. Le appoggia la mano grassoccia sul gomito. La sospinge verso il capolinea della navetta che porta in città. I due saliranno a bordo già allacciati, sotto lo sguardo disgustato delle signore rispettabili, che deplorano quelle «femmine lascive» che a Chicago non rischiano nemmeno l’arresto.
Dei due, sappiamo soltanto il nome di lei: May Duignan, anni ventuno, fuggita due anni prima dalle campagne irlandesi di Edenmore. Chicago May, una delle poche irlandesi a prendere un bastimento per emigranti, direzione Stati Uniti, senza avere alcun parente ad attenderla al porto. Su tremila irlandesi nubili in arrivo negli States nel 1890, solo settantasei non venivano accolte da amici. May, invece, era arrivata sola e sola rimase. Perché, a differenza dei suoi quindicimila connazionali già presenti a New York, non emigrava: fuggiva.
Chicago May, la prostituta, la ladra, la leggenda urbana, la sgualdrina capace di rubare a morsi i brillanti dalle spille da cravatta. Quella che fece il suo primo colpo grosso a Chicago rimorchiando un puttaniere fino alla Sherman House. Una preda carica, ma sul più bello le mancò la faccia tosta. E meno male che le venne in aiuto Dora Donegan e alla fine ci fecero mille dollari, con quello. Poi fuggirono in uno svolazzare di gonne, verso i locali dove si serviva da bere alle donne non accompagnate. Chicago May, che per cominciare la carriera scelse il commercio del sesso. Una bella carriera, secondo la commissione d’inchiesta sul vizio: il reddito di una prostituta di Chicago ammontava a ventiseimila dollari, un’impiegata ne guadagnava seimila.
Divenne in breve «la regina dei bassifondi», May. Ladra, truffatrice, ballerina, omicida. Avvolta dai lussi e affamata. Compagna del famigerato bandito Eddie Guerin, che la portò con sé a Parigi il tempo d’una rapina la cui eco avrebbe fatto il giro del mondo: quella agli uffici dell’American Express. Fu rinchiusa per sette anni nelle prigioni francesi e là si salvò la vita con i libri: lesse tanto, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle dieci di sera, al lume del gas, con le spalle curve, voltando in silenzio le pagine, senza muovere le braccia.
Lesse così tanto, May Duignan, che decise di scrivere: Chicago May, Her story: A Human Document by «The Queen of Crooks». Le sue memorie, rimaste ad ingiallire per anni nelle biblioteche americane, sono state riportate in vita da una sua connazionale, Nuala O’Faolain, che le ha lette, completate con un’appassionata ricerca di epistolari originali e di rapporti conservati nell’archivio dell’Fbi e poi ha scritto di May una biografia straordinaria e piena d’amore. La storia di Chicago May (Guanda, pagg. 320, euro 16,50, traduzione di Federica Oddera) è l’ultima grande rapina della regina dei bassifondi: quella della nostra memoria, del nostro sguardo, della nostra partecipazione. Un tributo che riporta May - femmina strepitosa strepitosamente esclusa dal consesso femminile dell’epoca - tra le donne di oggi, oltre «l’eroismo femminista», al confronto con il confine tuttora insuperabile: quello del tragico venir meno della complicità femminile di fronte alla dittatura del giudizio sociale.
Chicago May ebbe relazioni con truffatori, ladri e puttanieri, che la usarono e ne abusarono. E si sposò, anche, fantasticando di cambiare vita. Venne più volte picchiata da uomini e donne per gelosia, per danaro, per invidia. E il giorno della sua morte, nel 1929, fu destinata a vedersi rubare dal suo ultimo amante il denaro per le pompe funebri e dalla morte stessa la speranza di un nuovo matrimonio con quell’imbroglione. Eppure quando un cliente s’ammalava nel suo letto, invece di cacciarlo lo considerava un ospite e lo curava, salvo poi scaraventarlo dalle scale se osava chiederla in moglie. Usò parte del bottino della rapina all’American Express per aiutare Eddie, che amò sempre, perché, come ebbe modo di dirgli quando lo ritrovò per caso dopo la rapina di Parigi in un pub londinese, «tu sei in gamba, Eddie, sai come si trattano le donne». E dei due era lei a presentarsi come «una pupa agghindata a dovere».
Perché sapeva cavarsela, Chicago May. Era forte, e violenta, e abituata sin dall’infanzia a lunghi tragitti a piedi scalzi, fuori e dentro l’anima.

Eppure scrisse, anche se una sola, solissima volta in tutto il suo lungo libro: «Se avessi avuto un bambino o fossi potuta tornare dalla mia gente, è probabile che mi sarei rimessa sulla retta via». Perché voleva un’esistenza rispettabile, Chicago May, ma la voleva agiata, molto agiata. E per le femmine non era ancora tempo di conquistarsela da sole, se non nei bassifondi.

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