«Basta che non pronunciamo mai le parole il senso della vita e certamente faremo una bella chiacchierata», gioca d’anticipo Giuliano Ferrara, funambolo dell’intelligenza annidato dentro il corpaccione, pur ridimensionato dall’autodisciplina, che tutti conosciamo. Siamo nella sede romana del Foglio, e l’incerto funzionamento dell’aria condizionata stimola la sudorazione quasi quanto il preambolo di Giuliano. Ho avuto l’ardire di proporre a Ferrara di parlare di Sunset Limited di Cormac McCarthy, un libriccino di 120 pagine pubblicato in Italia da Einaudi, con cui l’autore di Non è un paese per vecchi ha vinto il Pulitzer 2007; e dunque ben mi sta. Per fortuna, con quello che ha passato in questi mesi, Ferrara è diventato più magnanimo e, congedando i suoi collaboratori con un «lasciateci tranquilli un attimo, ché noi dobbiamo parlare della fine del mondo... », la butta sull’ironico ma non troppo. La storia di Sunset Limited si dipana attraverso un dialogo tra due personaggi denominati Bianco, un professore nichilista e votato al suicidio tra le rotaie dell’ultimo metro di New York, appunto il Sunset Limited, e Nero, un ex detenuto negro convertito al cristianesimo che da quel suicidio l’ha salvato e ora vuol convincerlo che vale la pena stare al mondo perché «Gesù è quell’oro in fondo alla miniera».
«Leggendolo viene in mente per forza Aspettando Godot di Samuel Beckett», attacca Ferrara. «Solo che, pensando anche agli altri suoi libri si capisce che, a differenza di Beckett, che sceglie una forma surreale, McCarthy è un autore popolare, uno che affronta la questione del destino in modo diretto, parlando di uno sceriffo, di una pallottola, di una strada». Potremmo definirlo un narratore dell’essenziale, dove l’essenziale non è il poco, il minimo, ma il tutto... «Ciò di cui lui parla è l’unica cosa che importa: la vita e la morte. È un narratore quintessenziale. McCarthy colloca nel quotidiano la partita con il destino, con tutta la sua dimensione apocalittica: La strada, la storia di un padre e suo figlio rimasti soli in un’èra post-atomica, è il libro più esplicito in questo senso. McCarthy prosegue la tradizione dei grandi pionieri e dei primi narratori americani, quelli che vivevano lo spirito della frontiera, il senso di un destino manifesto, uno scopo utile per tutta l’umanità... ». E Sunset Limited? «È una drammaturgia che procede per sovvertimenti, il primo dei quali è che Cristo è nero. In tempi di obamismo diffuso, questo è ancor più significativo. Sebbene io non simpatizzi per lui, riconosco che Obama ha un’immagine e una cultura da predicatore cristiano. Pochi giorni fa, in una chiesa di Chicago, ha detto con forza che i padri devono tornare a essere maschi. Un giudizio preciso sulla cultura della famiglia afro-americana, nella quale il padre è più che mai evanescente. Ma anche un discorso che ha spaventato le sinistre europee politicamente corrette. Infine, restaurare la figura del padre sarebbe un family day un tantino più robusto e laico di quello ruiniano. Tornando all’America, un Paese che ha bisogno di giustizia, il riemergere di un Dio nero mostra tutta la vivibilità e l’umanità del cristianesimo, come esperienza di fratellanza, di condivisione addirittura prima e al di là della fede come fatto spirituale».
Il professore Bianco, simbolo di una civiltà evoluta, invece rappresenta tutte le contraddizioni della cultura occidentale che afferma il primato dell’intelletto e della conoscenza. Ma poi, come dice il Nero, finisce tra le rotaie del Sunset Limited. Qui, forse c’è un altro sovvertimento: l’autodistruzione viene perseguita come una vittoria. «Il Bianco è una figura forte: si sente prigioniero della speranza, della felicità. Non soltanto vuole morire, ma vuole guadagnare la solitudine assoluta. Nemmeno vuole rivedere sua madre. Semplicemente, vuole non esistere. Una posizione radicalissima. Disperata. E qui si vede che McCarthy è più narratore che pedagogo». Non sarà un pedagogo ma il suo libro, come forse nessun altro, rappresenta quest’epoca di scontro fra il cristianesimo e il nichilismo contemporaneo. Cristo si identifica in Nero perché il popolo nero conserva una primordialità vergine che Bianco non ha più e forse non può più avere. C’è troppa presunzione, ci sono troppi libri. E a Bianco che ammette di non essere abbastanza virtuoso per accorgersi di Dio, Nero replica che «non si tratta di essere virtuosi. Si tratta di stare zitti». «Si tratta di saper ascoltare», precisa Ferrara. «Nero rappresenta l’esperienza evangelica, è un monumento al povero di spirito. Ma i libri che ha letto Bianco, come Guerra e pace, sono un portato del cristianesimo. Io credo che il confronto non sia tra uno che incarna la spiritualità e l’altro che rappresenta la secolarizzazione, ma che entrambi si muovano in un orizzonte secolarizzato».
Più che la fede e la scommessa su Dio, il terreno preferito da Ferrara è l’etica, la città degli uomini. «In uno dei suoi ultimi saggi il vescovo anglicano Nazir-Ali scrive che la libertà di peccare senza misura del mondo contemporaneo viene dal cristianesimo. Ma questa libertà di peccare non va giudicata, bensì messa sotto controllo. La conversione non è un fatto risolutivo per la civiltà. Nella storia, dopo che il cristianesimo ha convertito re e regine, ha cominciato a corrompersi, secolarizzarsi. Dopo la conversione entra in gioco la libertà, la scelta. L’uomo deve decidere di liberarsi razionalmente della presunzione di onnipotenza della ragione, perché la fede ha un suo spazio intellettuale preciso».
Ci sono altri sovvertimenti, altri paradossi? «Il cristianesimo apparentemente perde. Nero vede fuggire il suo interlocutore e muore nel dolore di non riuscire a salvarlo». Un dolore che viene dalla consapevolezza di non aver trovato le parole giuste per parlare all’uomo che sceglie l’annientamento. Questa non è forse la situazione della Chiesa di oggi, così incapace di parlare alla disperazione dell’uomo contemporaneo? «Giovanni Paolo II ci ha provato. Papa Ratzinger continua a provarci. Ma per il resto la Chiesa è ferma all’apologia. Ha dimenticato la sua forza profetica. Se l’uomo d’oggi, entrando in una chiesa incontrasse questo carisma profetico e non appena la medicina della solidarietà; se trovasse dei parroci che hanno letto anche McCarthy e non si perdessero a corteggiare le mode e i giovanilismi correnti; se le parrocchie tornassero a essere luogo di missione... allora credo che qualcosa potrebbe cambiare».
Questa lucidità di giudizio sembra un po’ più precisa di quella di un ateo devoto. Le calza ancora quella definizione? Qualcun altro dice che lei è un perdente di successo? «Questa è un’espressione un po’ mondana», mi squadra Ferrara. «Ateo devoto: sono stato io a definirmi così in un contesto polemico. Per il resto, le definizioni non spettano a me».
Che bilancio fa dell’esperienza della lista pro life? Si è sentito solo? «La solitudine era prevedibile. Questa è una battaglia cominciata con il paradosso di un digiuno nel periodo di Natale e non in Quaresima. Potevo non essere solo? C’è una frase nell’ultimo libro di Vito Mancuso che descrive alla perfezione il tragitto di questi mesi: se vuoi autodistruggerti, fai una campagna elettorale basata sulla verità e non sugli interessi. Sono profondamente convinto di tutto ciò che ho fatto, a prescindere dal risultato elettorale. Ma sono anche realista e ho una salute da tutelare. Vedrò come proseguire. Gli avvenimenti di queste settimane, quello che succede nel mondo, continuano a darmi ragione. Posto che l’aborto è legislativamente possibile, possiamo cominciare ad affermare che è moralmente inaccettabile. E che non può essere una soluzione da welfare per i problemi delle famiglie. Questa sarebbe - è - una barbarie. Affermarlo significa rovesciare la prospettiva di tutte le battaglie per la vita fatte finora: non più per fede, ma per scienza e giustizia. Tutto questo è fondamentale per il nostro buonumore, come dice Ratzinger.
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