Al cimitero si perdono le salme: Rita Pavone non trova più il papà

Ma dai, è intollerabile. Al Cimitero Monumentale di Torino sono sparite alcune salme. Una di sicuro: è quella di Giovanni Pavone, papà della cantante Rita e di Piero, Carlo e Cesare. Morto la seconda volta nell’aprile 2004, dopo aver cessato di vivere nel 1990, a 79 anni, proprio il 20 marzo. Un uomo al quale il destino sofferto, il patriottismo e la nobiltà di valori avrebbero dovuto riservare ben altra sorte che quella di perdere pure la dimora definitiva in una tomba comunale. «Leale, generoso, buon combattente durante la guerra per la libertà della nostra Patria, fu anche cittadino torinese fiero della sua condizione di umile operaio Fiat», lo descrivono i quattro figli in una lettera al Giornale che bisognerebbe leggere per intero tanto è commossa e dignitosa. E forse anche altre salme, a quanto si sente dire, non sono più al loro posto e neppure si sa dove possano essere finite. Perse. Inghiottite dall’indifferenza dopo esser state abbracciate dalla morte. Un orrore. Uno schifo diviso a metà tra incuria e burocrazia, tra gabole contrattuali e immondi scaricabarile. Torino, si sa, è una città austera e riservata, con il pudore giusto al posto giusto, mai lamentarsi, per diana!, e tutt’al più celare il proprio sdegno addolorato dietro quella riservatezza che non per nulla si dice piemontese. Magari la sorte di qualche disperso, se mai ce ne sono altri al Monumentale, può essere stata velata così. Ma il caso di Giovanni Pavone è venuto alla luce con furore perché i figli non ce la fanno più a piangere una tomba vuota, e per di più vuota senza un perché. Dunque, nell’aprile del 2004, un mattino all’alba, la famiglia era stata convocata per l’esumazione della salma: sapete, uno di quegli spostamenti che la silenziosa quotidianità dei cimiteri talvolta impone. Bene, nel momento più drammatico, «constatammo impietosamente l’avvenuta scomparsa dei suoi resti. L’incuria umana e quella negligente di certe dirigenze non ebbero a darci spiegazioni in merito, scaricando ciascuno le proprie colpe reciprocamente». Il Comune di Torino l’ha attribuita alla società appaltatrice dei lavori. E viceversa. Insomma, il solito, patetico rito di una nazione fondata sullo scarico di responsabilità e sulla convinzione che il silenzio, il tirammolla, l’aumma aumma alla fine paghino e ricolmino il vuoto di parole. Intanto, dall’aprile 2004 di Giovanni Pavone si sono perse le tracce probabilmente per sempre, in un orribile e kafkiano annullamento della dignità umana. Non gli era successo neanche il 15 giugno 1942 quando era nostromo sul Trento, l’incrociatore italiano colpito al largo di Malta da un aerosilurante inglese e poi affondato da un sottomarino della Royal Navy. Una strage, 657 morti, la metà dell’equipaggio, anche il comandante si lasciò morire nella cabina di comando. Giovanni Pavone, che era nato ad Asti ma aveva sangue siciliano, vagò per giorni sul mare con gli altri naufraghi. Poi fu fatto prigioniero. Al suo ritorno a casa, dopo che era stato considerato morto, l’enfisema polmonare e la piorrea lo avevano reso irriconoscibile, le difese emotive azzerate dal trauma. Ricominciò. Poverissimo. Alla Fiat. Come operaio. Nel 1945 nacque Rita, nel 1959 una ricompensa a troppi sacrifici: uno dei tanti alloggi che la Fiat affittava ai dipendenti più bisognosi, tre stanze, bagno e cucina a Mirafiori. Poi le gioie dei figli, la vecchiaia, il fiato sempre corto, una morte serena. La prima.

Quando è arrivata la seconda, in quella schifosa alba dell’aprile 2004, perso nell’estremo trasloco imposto da qualche codicillo, forse neanche lui, che pure era sopravvissuto ai siluri e alla povertà, si sarebbe immaginato tanto scempio.

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