Roma - Senatore Tancredi Cimmino, come si dice dalle sue parti: cornuto e mazziato.
«E dire che fui io a liquidare la Dc in Campania quando Antonio Di Pietro la affossò con Mani pulite».
Lei se l’è cercata, schierandosi col nemico.
«Diceva che avrebbe fatto il partito della legalità».
O magari più prosaicamente diceva che l’avrebbe candidata in Parlamento.
«Mannaggia a me. Non mi era bastato Mastella».
Almeno dall’Udeur scappò con la cassa.
«Ecco, appunto, faccia il titolo così: “Di Pietro salva Travaglio”».
Racconti.
«Marco Travaglio la scrisse sull’Unità quella falsità della cassa, e io lo querelai, certo di vincere».
Invece?
«Avrei vinto 100mila euro. Ma ritirai la querela».
Ottima mossa.
«Furono Silvana Mura e Antonio Di Pietro a chiedermelo. Prima rifiutai, ma poi mi convocarono al ministero, fecero pressioni, dissero “è un amico, lascia stare”».
E lei li accontentò.
«Sarei stato capolista al Senato per l’Idv...»
Uno scambio?
«Certo non mi dissero “se ritiri la querela ti candidiamo”. Ma certe cose non c’è bisogno di dirle: non mi avrebbero candidato se gli avessi negato un favore».
La candidarono.
«Rimasi capolista fino a pochi giorni prima del termine di presentazione delle liste».
Il 10 marzo il suo nome non era più nemmeno al piede, della lista.
«Sì, perché il Giornale pubblicò la notizia che nel 1998 era stato chiesto il mio arresto e il rinvio a giudizio per associazione camorristica».
Erano i primi di marzo. Però «il Giornale» scrisse anche che lei era stato prosciolto.
«Infatti! Ma mi fecero fuori lo stesso».
E lei che fece?
«Il 20 marzo scrissi un sms a Di Pietro, segnalandogli la questione».
E lui?
«Rispose così: “È una stronzata pazzesca”. Poi mi chiese di vederci a pranzo».
E le spiegò?
«Avrei preferito che mi dicesse chiaro: non voglio rischiare che mi attacchino. Invece non disse una parola. Del resto lui fa sempre così, promette, non mantiene e scompare».
Però lei rimase.
«Mi aveva chiesto di radicare il partito a Roma, disse che gli serviva la mia esperienza. Ci credevo».
E adesso se n’è andato.
«Altro che partito della legalità, certe cose non succedono negli altri partiti. Avrei potuto trascinarli in tribunale».
Perché?
«Avrei dovuto convocare io il congresso provinciale, Di Pietro mi aveva messo lì apposta. Invece il coordinamento regionale si è inventato un regolamento, calpestando ogni regola, e ha convocato il congresso per il 23 e 24 gennaio».
E lei perché non lo convocava?
«L’ho scritto a Di Pietro il 13 gennaio scorso, con un altro sms: il congresso fatto ora è una farsa, perché qui l’Idv non esiste».
Sarebbe a dire?
«Su 120 Comuni, 61 hanno zero tessere, 12 ne hanno due e solo 14 ne hanno più di 15. Infatti gli onorevoli Cimadoro e Formisano mi avevano autorizzato a prorogare il tesseramento fino al 31 gennaio».
Insomma l’hanno scavalcata. E Di Pietro?
«Silenzio assordante. Ha risposto: accidenti che casino. Le pare una risposta politica questa? È lì che ho deciso di andarmene, sono stufo di essere preso in giro».
Si sente raggirato?
«Sì. Di Pietro è un cinico approfittatore. E si circonda di capetti locali che il partito non lo vogliono costruire, perché vogliono conservare i loro incarichi senza competitori che rompano le uova nel paniere».
Lei adesso che fa?
«Mi porto via mezzo partito, faremo un’associazione politica. Poi mia moglie sta parlando con gli avvocati».
Sua
moglie?«Vuol riaprire la causa contro Travaglio per i danni morali che lei e i miei figli hanno subito in questi anni».
Colpa sua che ha ritirato la querela.
«Questa è la mia rabbia, ma che devo fa’?».
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