La Cina? Meglio conquistarla con il cavallo di Troia dei Giochi

Sulla Stampa di qualche giorno fa Lucia Annunziata ha scritto un bell’articolo sulla spinosa questione delle Olimpiadi in Cina. Si intitolava La torcia è politica e l’assunto di base era che «le Olimpiadi sono sempre state estremamente politiche. I Giochi senza segno di boicottaggio sono stati l’eccezione, non la regola». Per suffragare questa tesi l’autrice cita, nel periodo precedente al secondo conflitto mondiale, due casi, Londra 1908 e Berlino 1936, rispetto a dieci edizioni olimpiche, il che, se la matematica non è un’opinione, vede vincente la regola e non l’eccezione. Dal dopoguerra a oggi, gli esempi portati dall’Annunziata aumentano, giungendo al numero di otto, il che rispetto al totale dei Giochi in quell’arco di tempo, fa la metà. Anche qui, dunque, i conti non tornano.
Non è solo una questione numerica. Boicottaggio è un termine ambiguo, ma mettere sullo stesso piano il pugno chiuso di due atleti a Messico ’68 e la strage di Monaco del 1972, non aiuta a chiarire il problema, casomai lo confonde. Allo stesso modo, accomunare l’esclusione dai Giochi del Sud Africa, nel ’64, per la sua politica razziale, e la non partecipazione di molte nazioni a Mosca nell’80, per protesta contro l’invasione in Afghanistan, è voler conciliare gli opposti. Ho detto che l’Annunziata ha scritto un bell’articolo, e lo confermo: è ben costruito, racconta anche particolari poco noti. Però è un articolo sbagliato.
Si potrà obiettare che la «mistica pacifista» delle Olimpiadi è comunque una bugia e che, come nota ancora l’editorialista della Stampa, «politica e Giochi sono da sempre legati» e insomma «non è una scelta fra sport e politica, ma una scelta tutta politica». Ma la mistica, in quanto tale, comporta un elemento di fede, è un credo quia absurdum. Il fascino delle Olimpiadi non nasce dal fatto che in esse lo sport trionfi contro la politica, ma che trionfi nonostante la politica. Nessuno è così cieco, sordo o illuso dal non rendersi conto che il primo è condizionato dalla seconda, ma ogni quattro anni, a livello planetario, ci si sforza di far sì che questo condizionamento resti in secondo piano e lasci spazio a una festa dei corpi e delle emozioni, dei record e dell’amicizia. Vorrà dire poco, non vorrà dire niente, ma il fatto stesso che si paventi o si auspichi un’edizione, come dire «politicamente corretta», sta a indicare che invece vuol dire molto.
Fa riflettere che siano proprio i politici, primi ministri, capi di Stato, governi, i più cauti nella vicenda relativa al boicottaggio e alle sue eventuali modalità, e gli intellettuali invece i più scatenati nel chiederlo in toto e senza sconti. Su Libero, un intellettuale di destra come Marcello Veneziani ha dato dell’idiota a chi non boicotta le Olimpiadi, sul Corriere della sera un intellettuale di sinistra come Bernard Henri-Levy ha parlato di rossore e di codardia. Il primo degli idioti, curiosamente, è il Dalai Lama, che il boicottaggio non lo vuole, e anche, par di capire, il primo dei vigliacchi...
Imboccata la via dell’indignazione è difficile capire quale e quanta strada si possa percorrere, anche perché è un’indignazione il più delle volte a corrente alternata, a scartamento ridotto, spesso si mette in moto fra un pisolino e l’altro, resta a lungo in sonno oppure si agita come se tarantolata. Che fare? Basterà non andare più al ristorante cinese o sarà sufficiente convertirsi alla cucina di Taiwan? E ieri, ai tempi dell’Afghanistan, bastava non bere più vodka o bisognava sputare in faccia a ogni russo che incontravamo? E domani? Va da sé, inoltre, che se non vogliamo i nostri atleti in Cina, perché dovremmo nel frattempo accettare quelli cinesi nel resto del mondo? E un nuotatore libico, un ginnasta sudanese, un pesista coreano, un maratoneta iraniano che tasso di credibilità democratica hanno?
Viviamo in un mondo difficile, tormentato, pieno di brutture, ma è quello che nel corso dei secoli ci siamo costruiti. Le nazioni dove la democrazia è un valore reale e sostanziale sono una minoranza, ma l’esportare la democrazia con le armi non ha mai dato buoni risultati... La china dell’indignazione etica è surreale se rapportata alla realtà: non vogliamo che gli atleti corrano i cento metri a Pechino, ma vogliamo comunque i capitali di Pechino, o il petrolio dell’Arabia Saudita, o i diamanti del continente nero...
Non è tanto o solo questione di realismo. Io non ho la supponenza di dire che sanzioni, boicottaggi, chiusure, non servano a nulla, né mi considero un’autorità morale in grado di bacchettare i comportamenti e i pensieri altrui. Mi limito a pensare che «invadere» pacificamente la Cina con il combinato disposto dei Giochi, degli atleti, delle televisioni e della stampa, di altri modelli di vita, di usi e costumi differenti, sia un fatto importante e in grado di lasciare frutti, di permettere confronti, di generare cambiamenti. Mi sembra un percorso più logico e, se non suona strano, più umano, perché dietro gli Stati e i loro comportamenti politici ci sono i popoli, esseri umani con le loro speranze, il loro bisogno di non sentirsi soli o abbandonati, l’illusione sia pur minima di un qualche legame.
La Cina, come Stato, ha molti elementi negativi, che i lettori di questo giornale bene conoscono perché non gli sono stati mai nascosti, ma c’è un’isteria anti-cinese su cui vale la pena soffermarsi. È il frutto di più fattori, ideologici e psicologici. I post-comunisti non le perdonano l’aver dismesso l’abito egualitario e parco del maoismo che permetteva loro di sorvolare sull’orrore concentrazionario e sul dispotismo asiatico dello stesso. I liberal-liberisti cominciano a chiedersi se la globalizzazione e la logica di mercato da sempre auspicate per quel gigantesco Paese siano davvero un affare per gli altri competitors internazionali. Il resto lo fa la paura della massa, del numero, l’idea di una laboriosità feroce nel suo essere instancabile, il vederla come un monolito anche nelle sue enclaves occidentali, silenziosa e inquietante. Abituati a considerarla, per gran parte del Novecento, un mondo a sé, chiuso e arretrato, spaventoso e però lontano e quindi non pericoloso, fatichiamo ad abituarci all’idea che si possa e si debba aprire, che torni a recitare il ruolo di grande potenza che per secoli le è stato proprio.

Come Italia, e soprattutto come Europa, non è negando il problema o limitandosi a un puro e semplice protezionismo che riusciremo a fronteggiare il futuro che ci aspetta. Perché, con o senza le Olimpiadi, la Cina è vicina. E ci dovremo convivere.

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