La fede non si combatte. È questo il problema dei regimi. Sono anni che la religione torna a intralciare i piani della Repubblica Popolare cinese. Come una maledizione, come una iattura, continua a bussare alle porte della gente, nonostante le torture, al di là della paura, delle minacce, del terrore. Non è un caso che il primo dicembre scorso Papa Benedetto XVI abbia lanciato un appello alla Chiesa cinese, «che vive un momento particolarmente difficile». Pechino risponde, colpo su colpo, e prepara il «suo» conclave, fatto di preti scelti direttamente dal regime. Il governo ci prova da sempre, lotta contro i preti, le chiese, le processioni, le meditazioni. Mao voleva uno Stato ateo, senza traccia di credo religioso ma ha perso. A confermarlo anche l’ultima stima del professore Li Tianming, del dipartimento di teorie religiose dell’università di Renmin.
«Ogni giorno sono dieci mila i cinesi che si convertono al cristianesimo». Un numero impressionante, ma soprattutto un dato che al governo fa paura. Nonostante i divieti, le torture, i campi di lavoro per «ripulire la mente». I cinesi continuano ad avere fede. La Cina ha due facce: quella ufficiale è atea, dall’altra parte c’è quella nascosta, che continua a crescere, che non si arresta, fatta da milioni di fedeli. «Oggi le religioni si stanno prendendo le loro rivincite», spiega il professor Tianming. «La Cina è una terra d’evangelizzazione», racconta. «Mai come oggi si sente tra la gente il bisogno di esprimere la fede. Si stima che ormai siano 200 milioni i credenti. A questo ritmo la Repubblica Popolare cinese diventerà il più grande Paese credente del mondo. Le persone vengono in chiesa perché si sentono felici, hanno bisogno di meditare».
Ogni domenica i fedeli di San Giuseppe di Wangfujing arrivano puntuali. «Vengo perchè qui non si parla di politica», racconta una donna. È questo il sogno di un partito unico. Con buona pace dei comunisti.
È dal 2010 che il governo cinese ha dichiarato guerra ai cattolici e protestanti, un centinaio di credenti erano stati arrestati nel mese di dicembre, e ancora oggi una trentina di loro si trovano in carcere. Sempre uguali le tecniche di persuasione, di tortura. Lo sanno bene anche i seguaci del Falun Dafa, considerata dal regime una setta, in realtà una tecnica di meditazione. Milleseicento cinesi torturati a morte, più di centomila detenuti in carcere, più di venticinquemila costretti in campi di lavoro, più di mille rinchiusi in ospedali psichiatrici. Dal 199l il Falun Dafa è considerata dal governo di Pechino illegale. Nasce nel 1992 e da allora diventa popolarissima. Sarà perché con soli cinque semplici esercizi promette effetti benefici sul corpo e sulla mente, sarà che tutto è gratuito, sarà che non ci sono tessere di iscrizioni, ma in meno di otto anni la pratica meditativa diventa molto popolare. Troppo per non essere considerata dal governo cinese pericolosa.
Il Professor Thomas Bernstein, a capo dell’East Asian Institute della Columbia University, che si occupa del fenomeno, spiega: «Le autorità cinesi temono tutto quello che possa destabilizzare il governo. Sono terrorizzati dal caos. Nel Falun Dafa c’è una caratteristica molto particolare che li intimorisce: questa pratica viaggia nella società a tutti i livelli, anche amministrativi. Ci aderiscono contadini, soldati e addirittura alti rappresentanti del governo».
Ed è per questo che Pechino ha appena dichiarato guerra ai gelsomini. Vietato anche nominare la parola, scriverla su internet, perché fa venire in mente proprio quella rivoluzione dei gelsomini che sta scuotendo tutto il Medio Oriente, che sta facendo cadere, una dopo l’altra, le dittature del Nord Africa.
Le repressioni si fanno più dure, raccontare o fotografare le torture equivale a una condanna per aver rivelato segreti di Stato. La condanna è a vita. Amy Lee è di Pechino. È riuscita a scappare in America dopo essere stata torturata perché rinunciasse alla Falun Dafa: «Ho perso tutto, ma ho ancora il mio credo». E alla fine ha vinto lei.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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