Politica

Cinque ergastoli ai Br per l’omicidio Biagi

Per la prima volta Viminale risarcito per le indagini

Claudia B. Solimei

da Bologna

Dopo nemmeno un giorno di camera di consiglio, la Corte d'Assise di Bologna presieduta dal giudice Libero Mancuso ha condannato ieri in primo grado all'ergastolo Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Diana Blefari Melazzi, Marco Mezzasalma e Simone Boccaccini, i cinque membri delle nuove Brigate rosse accusati di avere preparato e realizzato l'agguato mortale in cui cadde il 19 marzo del 2002 Marco Biagi, consulente per le politiche del lavoro del ministro del Welfare Roberto Maroni. Nessun dubbio, dunque, per i giudici sulla colpevolezza degli imputati, che per la prima volta non si sono presentati in aula per la lettura della sentenza, e sulla validità della collaborazione della pentita Cinzia Banelli. Punito con il massimo della pena anche Boccaccini, riconosciuto a pieno come il «compagno Carlo» citato nei documenti brigatisti, l'unico a essersi proclamato innocente e per il quale pure il pubblico ministero Paolo Giovagnoli aveva chiesto una condanna a 24 anni. I difensori hanno già annunciato il ricorso in appello. Quella emessa ieri a Bologna è la prima sentenza con rito ordinario, dopo le condanne in abbreviato della Banelli e della br romana Laura Proietti, contro le nuove Br.
«Marina è commossa e vuole che un ricordo vada alla vedova dell'agente Petri». È il primo sentimento espresso della vedova Biagi, che non era presente in aula ma è stata contattata via telefono dall'avvocato della famiglia, Guido Magnisi. «Cinque ergastoli, per tutti, ci sentiamo dopo» le ha detto il legale, per poi riferire il pensiero della donna, rivolto dunque alla vedova dell'agente della Polfer ucciso nella sparatoria sul treno del 2 marzo 2003 in cui morì il Br Mario Galesi e fu arrestata la Lioce.
Fu quell'episodio a dare una svolta alle indagini, sia per l'omicidio Biagi che per quello di Massimo D'Antona, il cui processo è in corso a Roma. Commossa la sorella del giuslavorista ucciso, Francesca, che era presente: «Adesso il mio pensiero va solo a mio fratello - ha detto a caldo, nascosta dietro un paio di occhiali scuri -. Vorrei dire solo questo, avevamo bisogno, come famiglia Biagi, di credere nella giustizia». Per il procuratore capo Enrico Di Nicola si tratta di «una sentenza che ci riempie di soddisfazione». «Se non ci fosse stata questa vicenda - ha detto invece il pm Giovagnoli - queste persone avrebbero continuato a uccidere».
Al momento della lettura della sentenza, in aula non c'era molta gente: il questore di Bologna, Francesco Cirillo, molti agenti della Digos che hanno partecipato alle indagini, poi tanti avvocati, soprattutto giornalisti. Per il Comune di Bologna non si è presentato nessuno, nonostante il sindaco Sergio Cofferati, che da segretario generale della Cgil fu un forte avversario delle riforme propugnate da Biagi, avesse lasciato intendere una sua possibile presenza istituzionale nelle fasi finali del processo. A un comunicato ha poi affidato il suo pensiero: «La sentenza è un risultato importante per lo Stato, che vede così condannati gli esecutori di un barbaro omicidio mirato a colpire la coesione sociale, le istituzioni e dunque la democrazia».
Gioia e sollievo sono state espresse dal ministro Maroni: «Oggi (ieri, ndr) è un bel giorno per la democrazia e per tutti coloro che hanno combattuto il terrorismo e ne sono stati offesi».
I cinque imputati sono stati condannati anche al pagamento in solido di una provvisionale di 2,5 milioni di euro per la moglie, i due figli, il padre e la sorella del docente ucciso. Altre provvisionali sono andate all'Università di Modena e al Comune di Bologna. Basse, invece, quelle riconosciute dalla corte alla Presidenza del Consiglio dei ministri (mille euro), al ministero del Lavoro (altri mille euro) e al ministero dell'Interno (tremila), a cui tuttavia per la prima volta in Italia sono state riconosciute le maggiori spese derivanti dalle indagini sui terroristi.

Si tratta di una decisione di routine, è stato chiesto al legale della famiglia: «Forse no» la sua risposta, riferita alla responsabilità che lo Stato avrebbe avuto nella morte di Biagi, a cui era stata tolta la scorta nonostante le sue insistenze.

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