Cronaca locale

Ciofeca e Rabagliati, Milano al tempo di Salò

L’orto in piazza Duomo, il Biffi trasformato in mensa e Gassman in scena: due storici ricostruiscono la vita quotidiana della Rsi

I razionamenti, la borsa nera, il coprifuoco, i pochi svaghi per cercare di evadere dall’incubo di giornate scandite dalla macabra alternanza di privazioni, sofferenze e morte. La guerra mussoliniana per l’Italia fu tragica. Ma all’interno di quel dramma ci un momento, se possibile, ancora più terribile. Un momento in cui l’obiettivo per la maggioranza degli italiani non fu più vivere, ma sopravvivere. E quel momento furono i 600 giorni di Salò. Dall’armistizio, nel settembre del ’43, alla Liberazione, aprile del ’45, l’Italia - sia quella che scelse di darsi alla macchia e combattere con i partigiani, sia quella che rimase fedele all’alleanza con la Germania nazista, sia quella più numerosa che rimase nel mezzo, indecisa e attendista - dovette affrontare prove di resistenza al limite della sopportazione. E in che modo ciò avvenne, lo raccontano due storici dell’Università Statale di Milano, Roberto Chiarini e Marco Cuzzi, nel volume Vivere al tempo della Repubblica sociale italiana (La Compagnia della Stampa, pagg. 144, euro 25) che raccoglie molto materiale inedito, tra foto, manifesti, volantini, interviste ai reduci, persino cartoncini d’auguri e fumetti propagandistici...
E come si viveva al tempo di Salò? In giornate scandite dagli orari del tempo di guerra - dal dicembre ’43 le autorità repubblicane impongono in tutte le città, a partite da Milano, un coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino talmente rigido che la Messa di mezzanotte di Natale viene celebrata alla quattro del pomeriggio - gli italiani devono fare i conti prima di tutto con la mancanza di beni di prima necessità: il pane bianco è un privilegio per pochi, la maggior parte della popolazione deve accontentarsi del mischio, un’orrenda mistura di farina di lenticchie, cicerchie e orzo. La pasta è un miraggio, un po’ meglio va con il riso. Il caffè un lontano ricordo (qualcuno al suo posto riesce a farsi andar bene anche la ciofeca di orzo e cicoria). La carne sparisce anche a Natale e Pasqua, e sui giornali appaiono proposte di ricette come formaggini e lieviti fatti in casa, marmellate di mele senza zucchero, castagnaccio... Persino la verdura scarseggia: piazze e aiuole vengono riconvertite in orti di guerra - a Milano si spigola sotto il monumento equestre di Vittorio Emanuele II - mentre anche i ristoranti più prestigiosi come Biffi, Chiavacci, Pagni e il leggendario Bar Commercio in piazza Duomo sono trasformati in mense collettive...
Walter Molino, sulla Domenica del Corriere del settembre 1943, raffigura una famiglia che improvvisa un triste bivacco tra le macerie dopo un bombardamento del centro di Milano: una scena che diventerà sempre più frequente da lì alla fine della guerra.
L’energia elettrica è razionata, i mezzi pubblici vanno a singhiozzo, le tomaie delle scarpe sono sostituite con spago intrecciato in casa e le sigarette, nonostante l’elegante e surreale pubblicità delle «Macedonia», diventano un miraggio. Ma ci si accontenta anche del trinciato forte... Per sopravvivere, al tempo di Salò, basta davvero poco: uno spettacolo nei pochi locali aperti (a Milano la Scala è distrutta ma Calindri e Gassman recitano in commedie leggere fino al giorno della Liberazione), un disco dal ritmo allegro come Quando canta Rabagliati, un’ora di radio prima di andare a dormire: per alcuni le notizie della clandestina Radio Londra, per altri le trasmissioni dell’Eiar.

Quelle che immancabilmente si concludevano con le lugubri parole della «Preghiera della Repubblica sociale».

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