Citigroup, un colosso troppo grosso per fallire

Citigroup è uno dei pilastri su cui si regge il grattacielo della finanza Usa. Presente in 106 paesi, conta 300 mila dipendenti e oltre 200 mila clienti. Per questo, il governo Usa è corso ai ripari, varando un piano che prevede garanzie per oltre 300 miliardi di dollari

Citigroup, un colosso troppo grosso per fallire

Wahington - Citigroup è uno dei pilastri su cui si regge il grattacielo della finanza Usa. Presente in 106 paesi, conta 300 mila dipendenti e oltre 200 mila clienti. È un colosso troppo grande e troppo globalizzato per lasciarlo fallire. Per questo, il governo Usa è corso ai ripari, varando un piano che prevede garanzie per oltre 300 miliardi di dollari e un’iniezione di liquidità da 20 miliardi di dollari, che fa seguito a quella da 25 miliardi di dollari già decisa tempo fa. Il piano di salvataggio di Citigroup somiglia a quello predisposto per Aig, il gigante delle assicurazioni Usa, anch’esso troppo grande e troppo ramificato a livello mondiale per essere lasciato da solo in balia della crisi finanziaria.

Pilastro del sistema Usa Fino a quelche tempo fa Citi, insieme a Bank of America e JP Morgan sembrava uno dei punti di forza del sistema finanziario Usa. Tutte e tre sono, infatti, banche retail e possono contare su una vasta massa di depositi e di sportelli che pareva renderle invulnerabili alla crisi dei mutui, controbilanciando coi depositi le perdite legate alla finanza strutturata. Mentre le banche d’affari come Lehman crollavano oppure (è il caso di Goldman e Merrill Lynch) si trasformavano in banche ordinarie, Citi, BoA e Morgan si espandevano. Poi però Citigroup ha cominciato a scricchiolare.

Perdite e ricapitalizzazioni Negli ultimi quattro trimestri ha accusato perdite per 20 miliardi di dollari e ha proceduto a ricapitalizzazioni per 50 miliardi di dollari. Il titolo, che nell’agosto 2000 valeva 57,50 dollari è sceso a 3,7 dollari, crollando dell’87% dall’inizio dell’anno. La sua capitalizzazione di borsa, da quasi 300 miliardi di dollari a fine 2007, è scesa a 20 miliardi di dollari. Inoltre il gruppo ha perso la corsa per acquistare Wachovia, soffiatagli da Wells Fargo e recentemente l’amministratore delegato, Vikram Pandit, succeduto al mitico Chuck Price, travolto dalla crisi dei subprime, ha annunciato un drastico taglio di 50 mila posti.

Il compito di Pandit Pandit è stato chiamato alla testa di Citi per procedere ad un radicale ripulisti dei suoi bilanci. Di origini indiane, Pandit è considerato un banchiere prudente, calcolatore, tutto il contrario dello spericolato Prince. Lui stesso ha confessato di essersi sentito spesso frustrato, dovendo guidare un bolide come Citigroup: "In questi mercati bisogna decidere in fretta e io ho dovuto modificare molto il mio istinto". Pandit è riuscito a strappare agli azionisti di Citi un mega-aumento di capitale da 50 miliardi di dollari, a condizioni molto più vantaggiose rispetto a quelli varati da altre banche Usa. Questi soldi sono stati in gran parte destinati al riciclaggio dei cosiddetti titoli tossici, quelli ad alto rischio, il cui valore è stato praticato azzerato dalla crisi dei mutui e che pesavano nella pancia della banca.

Lo spettro del fallimento L’operazione non è bastata ad allontanare dalla banca lo spettro del fallimento. Dietro all’ascesa di Pandit c’è un’eminenza grigia di Citigroup, Bob Rubin, ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, l’uomo che ha abolito il Glass-Steagall Act, la legge che separava l’azione delle investment bank da quella delle banche retail. Quel radicale cambiamento legislativo oggi è considerata una delle falle che aperto la strada alla finanza creativa e dunque alla crisi dei mutui. Dopo il 1998 Rubin è diventato uno dei più influenti membri del board di Citigroup. C’era lui dietro la finanza allegra di Chuck Prince e sempre lui ha pilotato, pochi mesi fa, l’ascesa di Pandit. Pandit ha diretto Citi con un fare accentratore, cercando di ridurre la sua esposizione, ma i titoli tossici nella pancia della banca erano evidentemente troppi per poter essere digeriti. Nessuno li voleva, erano invendibili. Queste attività, si legge in una lettera agli azionisti diffusa dalla banca martedì scorso, "semplicemente non possono essere venduti oggi a un prezzo ragionevole e in quantità sufficienti".

Il maxi-piano Paulson L’ultima spiaggia per Citigroup era il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari, varato dal segretario al Tesoro, Henry Paulson, che prevedeva una massiccia acquisizione da parte del governo dei titoli tossici presenti sul mercato. Ma Paulson ha dovuto far marcia indietro, dirottando i soldi del piano alle iniezioni di liquidità e alla ricapitalizzazione delle banche, rinunciando così al rastrellamento di titoli ’tossicì. A questo punto il fardello per Citigroup è diventato troppo pesante. La settimana scorsa il titolo ha dimezzato il suo valore in borsa e a niente è servito l’annuncio del taglio da 50 mila posti. La banca rischiava di affondare sotto il peso delle svalorizzazioni delle sue attività finanziarie.

L'intervento del Tesoro Per evitare il crac è intervenuto il governo con il piano di salvataggio. Pandit, per ora, resterà al suo posto, ma il suo prestigio si è notevolmente ridotto.

Il governo garantirà i titoli più legati al mercato immobiliare e gran parte dei 300 miliardi di garanzie statali dovrebbero andare in quella direzione, assicurando una boccata d’ossigeno a Citigroup. La banca è stata considerata un gruppo troppo grande per poter fallire e, nonostante Pandit assicurasse che l’istituto ha solide basi finanziarie, il governo Usa ha preferito non rischiare.

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