nostro inviato a Greenwich (Connecticut)
Il treno ci mette 37 minuti. Si contano sull'orologio della stazione, appena si arriva. Un Rolex. Perché questa è Greenwich, la Wall Street sul mare, la città degli ex paperoni della Borsa, il dormitorio di lusso dei Ceo delle banche d'affari, la tana del capitalismo messo in discussione dal crollo del Dow Jones. Un Rolex qui è come lo Swatch in ogni altro posto. Chi controlla l'ora sa che tra due giorni si vota anche qui, nel simbolo del crac finanziario, nella tana dei signori che mezza America guardava con ammirazione e adesso guarda con disgusto. Si vota, ma è come se i 37 minuti che dividono New York da Greenwich siano il viaggio verso un altro mondo. Non ci sono segni elettorali, non ci sono simboli politici ostentati, li hanno tolti o non li hanno mai messi, prima perché non erano chic, poi perché è meglio non ricordare certe cose: le elezioni sono un dettaglio da dimenticare in fretta.
La campagna elettorale si gioca sulla crisi economica e qui crisi significa far salire un senso di vergogna. Come se tutti si sentano Dick Fuld, l'ex numero uno di Lehman Brothers che vive a Greenwich ed è diventato il volto più detestato degli Stati Uniti. Lo dicono quelli che qui vivono senza dipendere da Wall Street, come Don Harrison, direttore del Citizen, lo storico settimanale cittadino: «Ogni volta che Obama o McCain accusano gli speculatori della Borsa, ciascun abitante di questa città ha il terrore che si stiano riferendo a lui». Tra Greenwich e Darien, poche miglia più a nord, il 30% degli abitanti ha un lavoro collegato con il New York Stock Exchange: non c'è nessun altro posto al mondo connesso così direttamente con gli indici delle borse. Solo che a Darien vivono i broker, quelli che ogni mattina si alzano e accendono i blackberry sperando che gli indici asiatici non annuncino una giornata d'inferno, mentre Greenwich è il territorio dei capi, dei dirigenti di banche ed Hedge Fund. Allora Darien soffre, Greenwich è solo in silenzio. Immune al crac, o quasi. S'è spaventato solo il sindaco che ha già annunciato un budget più ridotto per l'anno prossimo, perché teme di incassare meno tasse. È abituato bene: qui ci sono contribuenti famosi come Mel Gibson, Jack Nicholson, Ron Howard, qui il valore medio delle case è di 1,2 milioni di dollari, i 60mila cittadini versano il 13 per cento di tutte le entrate fiscali del Connecticut.
La campagna elettorale che parla solo di soldi, di ridistribuzione della ricchezza, qui mette un po' di vergogna, qualcosa tipo «stai a vedere che adesso se la prendono solo con noi», una sensazione di disagio che entra ed esce dalle porte dei negozi di superlusso di Greenwich Avenue: Tiffany, la gioielleria Betteridge, poi Brooks Brothers, Ralph Lauren, Saks. Questa striscia d'asfalto è un salotto dove una carta che cade accidentalmente ti fa sentire un criminale. È il salotto delle signore di Greenwich, quelle che parcheggiano i loro Suv senza l'ossessione di dover trovare un posto. Vuoi mettere la differenza? A Manhattan sulla Quinta Avenue in macchina non ci puoi neanche andare, qui hai gli stessi negozi e ci arrivi tranquillamente motorizzata. Scendono, chiudono le portiere e guardano le vetrine. «Il nostro voto non conta. Tanto il Connecticut è democratico comunque».
Il problema non è questo. Il problema è lasciare che passi il 4 novembre, che si spengano le luci sui suoi abitanti facoltosi usati come capri espiatori. Simboli e icone si ribaltano, si rovesciano, perché l'America detesta Dick Fuld e invece Greenwich lo difende. Lo fa anche chi non lo conosce, come Elizabeth Schenker, una ragazza poco meno che trentenne che sta accompagnando la madre da Tiffany: «Perché ce l'hanno con lui? Perché Obama e McCain l'hanno preso come un farabutto? Lehman Brothers è fallita, ma la politica l'ha abbandonata, mentre non ha fatto lo stesso con altre società. Noi siamo con lui, è una persona rispettabile. E adesso lasciateci in pace». In pace davvero.
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