Clandestini, e ora diranno «Cassazione razzista»?

Una sentenza, quella numero 5856 della Corte suprema di Cassazione, cioè del vertice della giurisdizione ordinaria, che viene a rompere qualche uovo nel paniere della sempre un po' piagnucolosa apologia multietnica. Essa stabilisce infatti che gli immigrati irregolari con figli minori che studiano in Italia non possono chiedere di restare nel nostro Paese sostenendo - come sostenevano gli avvocati di un clandestino albanese al centro della causa - che la loro espulsione provocherebbe un trauma «sentimentale» e un calo nel rendimento scolastico dei figli che si risolverebbe nell’impossibilità di assicurare loro un «sano sviluppo psicofisico». In sostanza, per la Cassazione l'esigenza di garantire la tutela alla legalità delle frontiere prevale sulle esigenze di tutela del diritto allo studio dei minori. Ma c'è di più: nel respingere il ricorso la Suprema corte ha inteso anche sventare quello che si sarebbe potuto rivelare un sotterfugio per aggirare la legge. Si legge infatti nella sentenza che dando per preminente il diritto allo studio si finirebbe per «legittimare l'inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l'infanzia». Ovvero per darla vinta a chi fa il furbo.
La sentenza numero 5856 creerà non pochi imbarazzi a quei Comuni che nel nome del solidarismo multietnico già avevano aperto le aule scolastiche ai figli dei clandestini. E non pochi argomenti polemici offrirà a quella parte della società politica e civile che nell'afflato multietnico, culturale e religioso nega il concetto stesso di clandestinità (siamo tutti fratelli, tutti figli di Terra madre, eccetera). Sentiremo dunque battere i tamburi di latta dei diritti umani negati e s'arriverà certamente all'accusa di «deriva razzista» rivolta alla magistratura. Nella quale si nutre sì fiducia, alla quale si mostra sì doveroso rispetto e della quale si difendono autorità, indipendenza e autonomia. Però a seconda di come tira il vento. Quelle che certo andranno a farsi benedire, nella immancabile disputa che seguirà alla sentenza della Suprema corte saranno le «regole». Le stesse mai tanto chiamate in causa in questi ultimi tempi e usate come munizionamento di mitraglia nella vicenda della presentazione delle liste elettorali. Regole alle quali è dovere democratico attenersi, regole da rispettare nella forma e nella sostanza, regole alle quali adeguarsi senza batter ciglio a meno di non mettere a repentaglio la tenuta democratica e antifascista del Paese.
In questo convulso clima regolamentista e formalista che divinizza il comma, il timbro, la copia conforme, gli stessi minuzzoli che furono demonizzati quando maneggiati da Corrado Carnevale, non a caso bollato da «giudice ammazzasentenze», ci vorrà una solida faccia di bronzo per cambiar rotta sostenendo che c'è regola e regola. E che quella che si riferisce alla corretta interpretazione della legge non vale. Anzi, puzza di razzismo. Non che il bronzo faccia difetto alle facce dei progressisti e dei regolamentisti alla Rosy Bindi. E dunque, anche se stavolta ne serve davvero tanto, sapranno dove trovarlo. Magari con l'ausilio dell'ennesimo appello firmaiolo della Repubblica, di un articolo dell'«autorevole» Observer o di una dichiarazione del sempre generoso Luiz Inacio Lula.

Resta però il fatto che il Tribunale di ultima istanza, la cui missione fondamentale è di assicurare l'interpretazione della legge, ha confermato che un clandestino è un clandestino. Anche se con figli in età scolare. Una sentenza, quella numero 5856, che ci conforta. Che fa, come s'usa dire, chiarezza e contro la quale non c'è ricorso che tenga.

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