COMENCINI «Negli anni ’30 sarei finita in un gulag»

COMENCINI «Negli anni ’30 sarei  finita in un gulag»

da Mantova
«Caro compagno occidentale»: così inizia uno dei brani più commoventi dell’ultimo romanzo di Cristina Comencini, L’illusione del bene (Feltrinelli, pagg. 210, euro 14), presentato oggi a Mantova. La lunga lettera di Irina, figlia di un comunista ammazzato da comunisti, intestarditasi a studiare economia per capire Marx, derubata del futuro dalle mani degli aguzzini, è indirizzata a tutti noi, dimentichi dei milioni di morti provocati dall’«illusione del bene»: il comunismo. Ma ora è venuto il tempo di riflettere, di urlare not in my name. L’autodafé della sinistra deve cominciare il più presto possibile.
Quando si parla di sinistra, Cristina Comencini, scrittrice pluripremiata (Passione di famiglia, Il cappotto del turco, Matrioska, tutti Feltrinelli) e regista nominata all’Oscar l’anno scorso per La bestia nel cuore, conosce bene l’argomento. Viene da una famiglia fra le più in vista dell’intellighenzia radical-chic: il padre, il grande regista Luigi scomparso di recente, socialista nenniano di lunga tradizione, la madre Giulia principessa di Partanna, la sorella Francesca, regista di film «schierati» come Mobbing e Carlo Giuliani, ragazzo.
Il tema è caldissimo e lei, che tra l’altro militò in Lotta Continua, è molto coinvolta. Qual è il «messaggio»?
«Uno dei sentimenti più forti che ho provato negli ultimi anni vivendo in Italia è questa onnipresente nostalgia per qualcosa che non è da rimpiangere. La modernità si carica di negatività. Ma la modernità è soltanto molto difficile da capire, perché gli schemi che avevamo in mente per capirla erano troppo semplici».
Quali erano questi schemi?
«Grandi parole d’ordine e semplificazioni. Il comunismo doveva essere un accadimento salvifico, che regola e mette a posto tutto».
E invece?
«E invece il marxismo di per sé è un’idea di fine della storia, un Eden in cui non si dovrà lavorare né produrre, né ci sarà lotta di classe».
E quale sarebbe il problema?
«Il problema è la prassi di questa visione utopistica. Dopo i fatti di Ungheria e tutto il resto, le persone di sinistra dicono di aver “elaborato”, ma la verità è che i milioni di morti ancora non si contano. L’idea di molti è che si sia trattato di un comunismo applicato male. A Mario, il protagonista del mio romanzo, questo non basta: vuole capire fino in fondo».
Non basta nemmeno a lei?
«Io sono dalla parte di Mario, anche se non sono lui. Nel libro il rifiuto della nostalgia semplificatrice avviene con il passaggio del testimone: da Mario a suo figlio».
Un figlio che alle pareti della camera non ha più Che Guevara da appendere. Fine delle utopie?
«Il movimento della storia e dunque la ricerca non finiscono mai, il marxismo era proprio la negazione di questo movimento. Mario e suo figlio partono per un viaggio. Forse troveranno altre cose da appendere alle pareti oppure no».
L’Unità qualche giorno fa l’ha attaccata duramente per questo romanzo...
«Non me lo aspettavo. Pensavo fossero più intelligenti e furbi. Invece sono naïf, si sono scoperti da soli. Non credo che quell’articolo censorio rappresenti tutti i giornalisti dell’Unità, dev’essere un pezzo un po’ sfuggito di mano. Tuttavia, credo che se fosse uscito negli anni Trenta a Mosca, io e la Feltrinelli saremmo finiti nei gulag».
Ma perché parlare di fine del comunismo fa ancora così scandalo?
«Perché nel nostro Paese il comunismo si è sposato con il pietismo e la paura. Per molte persone di sinistra abbandonare il comunismo vuol dire abbandonare il bene, la speranza e noi stessi. Quella dicitura che si legge all’aeroporto di Cuba: “Qui nessun bambino non ha un letto dove dormire”».
Lei è ancora di sinistra?
«Dopo aver scritto questo libro, anche più di prima».
Rimangono ancora da dire «cose di sinistra»?
«L’istanza di giustizia sociale il fatto fondante del movimento operaio.

Per questo non parlerei più di comunismo, ma di socialdemocrazia».
Queste sono le sue attese anche sulla missione del Partito Democratico?
«Lo ritengo una grandissima occasione e il nome scelto lo dimostra, ma la politica è come i romanzi: va verificata volta per volta».

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