Commuove ancora la Bohème scaligera firmata Zeffirelli

L’orchestra prevarica i cantanti ma la direzione esalta il fuoco e la tenerezza della partitura

Commuove ancora la Bohème scaligera firmata Zeffirelli

Alberto Cantù

da Milano

Per il cambio dal primo (In soffitta) al secondo «quadro» (Al Quartiere Latino) basta una breve pausa. L’intervallo prima che si apra il sipario sull’innevata Barriera d’Enfer prevede invece 35 minuti, che salgono a 45; e, per tornare in soffitta, giocare con artisti guasconi, poi piangere perché Mimì muore, occorre un’altra mezz’ora di paziente attesa. Troppo. Evidentemente le meraviglie tecnologiche della Scala rinnovata procedono ancora a scartamento ridotto. D’altronde lo spettacolo d’opera è appena rientrato, ieri l’altro, dagli Arcimboldi al Piermarini e lo ha fatto - 11 repliche fino al 19 luglio - con «La bohème del secolo» (scorso): quella che ha girato il mondo e conosciuto 160 repliche nella sola Scala, più 10 alla Bicocca quando nel 2003 si festeggiarono i 40 anni dal battesimo dello spettacolo.
«La bohème del Novecento», come ognuno sa, è quella di Franco Zeffirelli (regia, scene) e Piero Tosi (costumi). Allestimento che con un realismo poetico ineguagliato canta nei primi due «quadri» la giovinezza e negli altri due si strugge nella memoria di questa stagione irripetibile per intonarne la fine, di cui è emblema la morte di Mimì, piccolo essere senza radici e senza nome (chi sa che si chiama Lucia?). Simbolo - una cuffietta ricamata - piuttosto che personaggio.
Al Metropolitan di New York ogni volta che si materializza il quadro smagliante del Quartiere Latino con la geniale soluzione frontale su due piani - sotto, l’interno del Caffé Momus che appare quando le bancarelle si spostano; sopra, l’esterno con l’andirivieni della folla - viene giù il teatro dall’entusiasmo.
Alla Scala - buone presenze, ma non il tutto esaurito - i battimani più grati sono esplosi soprattutto alla fine quando in palcoscenico, fra gli altri, è apparso Zeffirelli. La gratitudine per un allestimento con cui siamo cresciuti e nel quale hanno dato il meglio grandi interpreti. Applausi non tanto sul versante musicale dello spettacolo - mirabile, però, il coro scaligero (guidato da Bruno Casoni) e quello di voci bianche (retto da Alfonso Caiani) - ma perché Puccini è Puccini e Bohème la sua opera profetica.
A noi sono piaciuti il nerbo squillante eppure soffice, la pulizia analitica esaltata dai «ritenuti», il canto voluttuoso, la tenerezza e il fuoco del direttore Rafael Frühbeck De Burgos. Certo. L’orchestra finisce spesso (non sempre) per prevaricare il canto o chiedergli una collaborazione che non ha luogo. Ma è un gran bel protagonismo, uno splendido indagare fra le pieghe della partitura. Che qualcuno, dal loggione, dissenta è plausibile.
Rodolfo corrisponde a un tenore lirico puro, quasi di grazia. Roberto Aronica, che lo impersona, non è tale e in più penalizza la sua parte con attacchi imprecisi, acuti forzati, intonazione talora ad altalena. Nel sostituire l’interessante e indisposta Hei-Kyung Hong, Svetla Vessileva è una Mimì accurata anche se cattura poco per colore ed eloquio sentimentale e commuove ancor meno.

Fabio Capitanucci è un Marcello di tutto rispetto; altro gusto e ben più marcate seduzioni competono invece a Musetta rispetto al personaggio secondo Daniela Bruera. Massimo Cavalletti compita ordinatamente il suo Schaunard mentre Carlo Cigni si perde un po’ fra i «sacri monti» della sua «Vecchia zimarra». Centrati il signor Benoit (Domenico Colaianni) e Alcindoro (Matteo Peirone).

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