IL CONSIGLIO DELLA SETTIMANA

Livorno, i livornesi e le canzoni d’epoca sono la particolarità de La prima cosa bella di Paolo Virzì, che contrasta felicemente coi film italiani ambientati qui o là per usufruire dei finanziamenti di questa o quella Film Commission.
Jean Renoir diceva che, a toccare i cuori, è la storia che possa svolgersi in un solo posto. Ciò spiega che si possa ridere e piangere con La prima cosa bella, titolo preso dal motivo di grande successo che Nicola Di Bari cantava quando cominciano i fatti: l’estate 1971.
Due bambini (Giacomo Bibbiani e Aurora Frasca) sono coinvolti nella cacciata di casa della madre (Micaela Ramazzotti), più perché civetta che perché fumatrice, da parte del padre carabiniere (Sergio Albelli).
Il povero trio vaga per anni, secondo l’ospitalità offerta alla donna, più che ai bambini. Poi il figlio diventa adulto (lo interpreta allora Valerio Mastandrea) e a Milano insegna italiano in un istituto tecnico. E qui lui resta, quasi tossicomane, fino all’agonia della madre fumatrice (ora interpretata da Stefania Sandrelli), quando la sorella (ora interpretata da Claudia Pandolfi) gli impone il ritorno a Livorno...
Virzì è per Livorno quel che Marcel Pagnol è stato e Robert Guédiguian è tuttora per Marsiglia. Descrive cioè la sua città anche in ciò che non gli piace. A priori è ostile - s’è già visto con Ovosodo - solo ai ricchi e qui anche a un nobile, «fascistone», nel quale s’intravvede Marzio Ciano.

Mastandrea e la Pandolfi somigliano ai bambini e ai ragazzi che li precedono nel ruolo, ma la Sandrelli ha un volto completamente diverso da quello della Ramazzotti. Se preso dalla storia, come è probabile, il pubblico ci passerà sopra. Paolo Ruffini, nel terzo figlio, quello «venduto», porta la bandiera dei livornesi doc.

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