Corona ci prova ancora: «Su Marrazzo so qualcosa in più»

Milano Ci sono domande così scontate da essere inevitabili. Così appena Fabrizio Corona esce dall’aula dove il processo contro di lui si avvia alla conclusione - e dove il pm Frank Di Maio si accinge a chiedere per lui 7 anni e 2 mesi di carcere - i cronisti gli si affollano intorno e gli chiedono la sua opinione sull’affare Marrazzo. Inevitabile: perché a ben guardare gli ingredienti del guaio che ha travolto il governatore del Lazio c’erano già tutti in questa inchiesta vecchia di tre anni, dal fascino inspiegabile dei transessuali, alle immagini rubate, al mercato delle «esclusive», ai ricatti espliciti o sottintesi.
E lui, Corona, non si fa pregare. Fedele fino in fondo al suo clichè, fa capire di saperla lunga. «Sul caso Marrazzo so qualcosa in più», qualcosa che nessuno ha ancora mai scritto, dice. «Ma certamente non la vengo a dire voi». E visto che c’è invoca una sorta di par condicio: «Sul caso Marrazzo l’agenzia fotografica milanese ha usato più o meno le stesse modalità di vendita che aveva la mia ma non è stata nemmeno indagata, mentre io ho fatto 130 giorni di carcere». E fa niente se le cose non stanno affatto così, perché l’agenzia del Marrazzogate le foto le proponeva a giornali e riviste, mentre invece lui, l’imputato Corona, offriva alle vittime di farle sparire (a pagamento) dalla circolazione.
Che questo fosse il modus operandi del «re del gossip» - come Corona amava autodefinirsi - la Procura milanese è convinta di averlo dimostrato a sufficienza. È così che il pm Di Maio arriva alla pesante richiesta di condanna: senza neanche bisogno di infierire, calcolando la pena partendo dal minimo, ma ritenendo l’imputato colpevole di tutti i capi d’accusa, delle estorsioni andate in porto - da quella a Francesco Coco, la più grave, a quelle a Marco Melandri del motomondiale, o ad Alberto Gilardino - come dei tentativi finiti in niente ai danni di Adriano e Lapo Elkann. «Ricatti in stile mafioso», arriva a definirle il pm, che di Corona traccia un ritratto da delinquente seriale e professionale, protagonista di un business dove l’attività lecita era poco più che una copertura per i ricatti che le stavano dietro. Nessuna attenuante, chiede il pm.

Che in Corona ci sia stata una vena di sregolatezza, un impulso non controllato alla devianza, è probabile: ma non è una scusante, perché poi a dettare le sue mosse era soltanto la brama di quattrini di «un uomo accecato dal denaro».

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