Così il giustizialismo è diventato un business

I professionisti del complotto sono la nuova casta dei giornalisti. Quotidiani, libri e tv: il processo mediatico è un’industria culturale

Così il giustizialismo è diventato un business

È un mestiere che tira. È la maschera di questa lunga stagione. Quando lo fa solo per soldi è una sorta di mastro Titta, se invece ci mette il livore ideologico, l’orazione, il sorriso beffardo e sopracciglio malfidato allora è roba raffinata, da tribuno, da avvocato giacobino, da vecchio domenicano. In ogni caso è un affare. L’importante è che si senta il tintinnar di manette. Non è solo una questione politica. È un carattere, un trauma infantile, un modo di guardare il mondo. C’è gente che vede nella giustizia una religione e la professa con il retrogusto di accendere falò. Sono i cultori della caccia alle streghe e hanno capito che, di questi tempi, indossare il saio di Savonarola è un modo per campare bene. Non c’entrano destra e sinistra. È una vocazione. Il guaio è che il giustizialismo è diventato un’industria culturale.

Se ne lamenta The Front Page, il web quotidiano politico di Rondolino e Velardi. La pseudonimo è quello di Retico e scrive: «Da 15 anni il tema che ci intriga e ci appassiona è il tintinnio delle manette e l’attesa (per fortuna, perennemente insoddisfatta) del grande “processo”, del lavacro che inchioderà il potente mafioso e lo ridurrà in catene. Il “processo” giudiziario domina la satira ed è diventato l’ossessione dei palinsesti e dei conduttori di talk show: c’è chi riproduce in tv “giornate in pretura” e processi veri; c’è chi ne inscena di finti nei propri studi agli imputati che vorrebbe alla sbarra».

Il giustizialismo è qualcosa di più di una piattaforma di partito. Non è solo Di Pietro e i suoi valori. È un’identità, un biglietto fortunato, una patente da intellettuale. È una galassia di libri, giornali e film che - come scrive Retico - «non si accontentano di un’anglossassone funzione di critica del potere, impongono una lettura della storia italiana degli ultimi vent’anni ridotta alla sola cifra del “complotto”, ad un’unica trama tessuta dagli stessi onnipotenti e onnipresenti burattinai: la P2, la mafia, Berlusconi e il Vaticano».
Il popolo giustizialista ama i teorici della controverità, che sempre più spesso straborda nella teoria del complotto, e venera scrittori o registi come Michael Moore, Oliver Stone e Dan Brown. Sono loro che stanno ispirando un filone editoriale italiano, quello che giura di dirti tutta la verità sull’Opus Dei o sui monatti della crisi economica. Il punto di partenza è la ricerca della verità, quello di arrivo qualche teorema fantapolitico. Il loro guru è Marco Travaglio. Il loro quotidiano (da mostrare nei cortei con orgoglio a mani alzate) il Fatto. E la loro casa editrice di riferimento Chiarelettere.

Sono loro i nuovi catoni, quelli che cianciano di un mos maiorum reinventato, i sacerdoti della Costituzione, gli evangelisti della trama eversiva, quelli che sono alla ricerca di un male assoluto che spieghi le miserie umane. Questi qui non scrivono, ma riportano, con astio, mostrando l’indice, dividendo il mondo in buoni e cattivi. Sono riusciti perfino a imporre un linguaggio, uno stile, che assomiglia molto ai «mattinali» della questura. Questo comporta anche una ridefinizione dei ruoli nella «casta» dei giornalisti. Un tempo c’era l’inviato speciale. Ora il «principe» è cronista di giudiziaria. È lui che dopo Tangentopoli detta i tempi della notizia e della politica.

Il giustizialismo si abbevera di complotti. È una filosofia che considera la natura umana corrotta. Non ci si può fidare. È un mondo marcio e solo pochi illuminati sono al di sopra di ogni sospetto. Sono strani i «tintinnatori di manette». Tirano spesso in ballo la democrazia, ma non si fidano degli elettori. La democrazia è un valore sempre, tranne quando si vota. Lì diventa una truffa. Il cittadino è nel migliore dei casi un incosciente, uno da perdonare perché non sa quello che fa, uno che si è fatto rimbambire dalle tv del Cavaliere. L’Italia, insomma, è un covo di lobotomizzati. I tintinnatori di manette hanno ribaltato l’onere della prova e come Jean Gabin teorizza che «nous sommes tous des assassins». Tocca a noi dimostrare che non è vero. È un clima da ordalia. Tu sei colpevole, vediamo se Dio ti assolve. Tutto il resto si muove nell’ombra. L’uomo sulla luna? Una cospirazione di Hollywood. Gli alieni? Sequestrati dalla Cia. Le Twin Towers? Una macchinazione americana. E via così. L’importante è vendere.

Trame bianche, nere e rosse. Il giustizialismo gioca sulla sfiducia, sul sospetto, sulla buona fede dei malfidati, di chi pensa sempre che dietro ogni storia ci sia una controstoria, losca, segreta, criminale.

Tutto questo avvelena, deturpa e ti lascia in balìa di qualcosa da cui non ti puoi difendere. Parla, parla, qualcosa resterà. I «tintinnatori di manette» si sono affidati alla dea fama, pagando tributi al suo volto più cinico: la diffamazione.

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