Così i Paesi islamici censurano la cultura pop dell’Occidente

Così i Paesi islamici censurano la cultura pop dell’Occidente

In Malaysia da anni il Consiglio nazionale della fawta, cioè l’organismo che emette editti sulla base di norme coraniche, ha vietato il botox, i concorsi di bellezza, i tacchi, il rossetto e persino lo yoga. Mentre l’Indonesia, la Siria e altri Paesi arabi musulmani sono impegnati in una dura opposizione a Facebook e ai social network. Questo per dire che l’episodio denunciato ieri dal quotidiano britannico The Sun - e cioè che l’Iran ha bandito il cartone animato dei Simpson perché «corrode la morale dei giovani» - è solo l’ultimo atto del lungo pugno di ferro degli Stati islamici contro il diabolico stile di vita occidentale.
Del resto che i valori e la forza di una cultura siano veicolati più facilmente attraverso i marchi commerciali di massa e i prodotti culturali mainstream (dalla Coca-Cola ai film blockbuster) piuttosto che dai principi della Costituzione o dai versi di un poema epico, l’Occidente lo ha capito, e sfruttato, benissimo. Come lo hanno capito, e combattuto, benissimo i Paesi dell’«altro» mondo.
In Iran la crociata portata avanti contro l’Occidente ha già preso di mira la Barbie nel lontano 1996, vietandone l’importazione e chiamandola un «cavallo di Troia» che insinua nel Paese abitudini nefaste, come il make up e gli abiti «offensivi»; qui sono vietate tutte le bambole in cui si possono distinguere i genitali, non sono autorizzati i giochi in cui si sentono voci di cantanti europei e americani, né le cucine giocattolo che includono bicchierini per gli alcolici. A Teheran è dalla rivoluzione islamica del 1979 che la polizia della morale è particolarmente vigile su libri, film, mode (persino tagli di capelli) occidentali.
A proposito di cartoni animati. Due anni fa un episodio di South Park (andato in onda negli Usa, non in Medioriente) in cui il profeta Maometto appariva nei panni di un orso scatenò l’ira dei fondamentalisti islamici, che in un messaggio comparso sul sito revolutionMuslim.com auspicavano per Matt Stone e Trey Parker, padri del leggendario cartoon, «la stessa fine di Theo Van Gogh», il regista olandese assassinato da un militante islamico nel 2004 per il film Submission. Da notare che nessuna organizzazione cattolica o buddhista si offese per un Gesù che guardava film pornografici e un Buddha che sniffava cocaina, comparsi nella stessa puntata. Comunque, sotto la minaccia islamica, i due autori scelsero l’autocensura: la puntata successiva era piena di bip e scritte «censored».
Quanto alla letteratura, due eclatanti esempi letterari di (auto)censura - al netto della più nota vicenda di Salman Rushdie e dei suoi Versetti satanici - sono quelli di Hanif Kureishi, accusato di essere un pornografo per la sceneggiatura del film My Beautiful Laundrette, e Michel Houellebecq, denunciato da diverse associazione musulmane per i suoi romanzi e che per evitare ritorsioni rinunciò a scrivere un libro sul suo processo: «L’intimidazione funziona - dichiarò nel 2010 -. Non credo che nessuno scriverebbe più di certi argomenti, come quello dell’Islam. Gli scrittori preferiscono sfuggire la realtà».
Ma se ciò che è più pop è più pericoloso, come stupirsi allora che proprio la pizza - il più universale dei prodotti - sia considerata «corruttrice»? Lo hanno stabilito gli ayatollah, che nel febbraio 2011 hanno bandito i programmi tv in cui si insegna a preparare i piatti stranieri, dal sushi alla margherita.
E se alle Maldive il Consiglio supremo degli Affari islamici arrivò a vietare il kolossal hollywoodiano Il Principe d’Egitto perché «rappresentare il profeta Mosè come cartone animato è contrario al Corano», nel 2008 l’Iran censurò il film The Wrestler per una scena in cui Mickey Rourke oltraggia la bandiera iraniana e lotta, battendolo, con uno sfidante chiamato «l’ayatollah». Ahmadinejad peraltro aveva già tuonato contro Alexander di Oliver Stone, troppo elogiativo sull’imperatore che distrusse le truppe persiane, e su 300 di Zack Snyder, pieno di «pregiudizi razzisti» (sulla Persia al tempo delle Termopili...). Poca cosa rispetto al divieto imposto nel 2006 dal governo di Zanzibar alle celebrazioni del leader dei Queen, Freddie Mercury, nativo dell’isola.

L’Associazione per la Mobilitazione Islamica dichiarò: «Il suo stile di vita è una vergogna per l’Islam. Non lo chiamavano forse Queen, “regina”? Qualsiasi cosa leghi Mercury alla popolazione musulmana di Zanzibar è un’offesa».

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