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Così l’idea della Grande Muraglia ha ispirato i «muri» del mondo

Pechino si guarda bene dal criticare Israele o l’India, con le loro barriere contro terroristi e clandestini

Così l’idea della Grande Muraglia ha ispirato i «muri» del mondo

Andare in Cina senza vedere la Grande Muraglia è come andare a Milano senza vedere il Duomo. In entrambi i casi ci si confronta con impressionanti creazioni umane, che nella loro diversità cristallizzano nella materia tre elementi immateriali: fede, tempo e continuità di propositi. Questa materializzazione dell’impalpabile mi ha colpito come un’immaginaria freccia quando mi sono affacciato dalla feritoia di una delle casematte, fatta di macigni squadrati, che punteggiano le migliaia di chilometri di questa «autostrada di pietra». Un camminamento sufficientemente largo per il passaggio di cavalli e carri, che vedo snodarsi perdendosi nel tempo e nello spazio sulla dorsale dei monti, sul fondo di valli ricoperte di neve.
La muraglia è certo servita a tener fuori dall’impero bande di invasori. Difficilmente avrebbe resistito all’assalto di grandi eserciti con un filo di soldati schierati su un lunghissimo fronte ma capaci di offrire una resistenza sufficiente per permettere a truppe di riserva di convergere nei punti in pericolo. Questo sistema difensivo, trasformato in inutile meraviglia di architettura militare, è tornato d’attualità da quando immigrazione illegale, infiltrazioni armate e terrorismo si sono trasformate nelle nuove sfide dell’epoca della globalizzazione e della guerra asimmetrica.
Il pensiero strategico che ha creato la Grande Muraglia è lo stesso che presiede oggi all’elettrificazione della barriera contro l’immigrazione illegale che gli Usa hanno creato lungo la frontiera messicana; a quella che l’Arabia Saudita sta costruendo per proteggersi dalle infiltrazioni dallo Yemen, o a quella della Thailandia contro la Malesia. L’India ha eretto da tempo una barriera di 3.000 km lungo il confine pachistano e ne sta creando un’altra lungo quello del Bangladesh. L’Uzbekistan fa lo stesso con il Tagikistan; il Kuwait con l’Irak. Il Marocco ha innalzato una barriera minata contro le infiltrazioni del Polisario nel Sahara occidentale dopo la sua contestata annessione nel 1978.
Di tutte queste barriere poco si parla nei media all’infuori del muro che Israele costruisce per difendersi (sinora con successo) dal terrorismo palestinese. Ma non sui giornali cinesi, nonostante gli stretti legami che Pechino mantiene col mondo arabo e il suo storico sostegno ai palestinesi.
Ci sono varie possibili spiegazioni di questo comportamento. La Cina, nonostante la fame di energia, produce il 50% del suo fabbisogno petrolifero in patria. Questo la distingue dal Giappone, che dipende dal petrolio estero - in gran parte mediorientale - per il 100%, o dall’Europa per il petrolio russo.
Nei confronti di Israele c’è poi in Cina una strana mistura di ammirazione e di interessi concreti. Il sostegno ideologico dato ai palestinesi e al mondo islamico, con cui la Cina mantiene stretti rapporti politici ed economici, non ha impedito che prima ancora che tra i due Paesi venissero stabiliti 15 anni fa rapporti ufficiali, si sviluppasse un continuo riservato dialogo nonostante alcuni grossi errori israeliani. Uno fu il rifiuto di Gerusalemme di accettare, all’inizio degli anni ’50, la proposta cinese di aprire un’ambasciata a Tel Aviv, essendo stato Israele uno dei primi Paesi a riconoscere la Cina comunista. Un altro, sotto pressione americana, fu la rottura di un importante contratto di tecnologia militare che avrebbe permesso alla Cina di trasformare un aereo di costruzione russa in velivolo spia di capacità di sorveglianza aerea molto estesa e avanzata.
Nonostante questi incidenti di percorso, le guerre arabo-israeliane, l’ascesa dell’islam radicale e il permanere della crisi palestinese, i rapporti tra Gerusalemme e Pechino non hanno fatto che svilupparsi nel corso degli anni. Alla base non c’è soltanto una lunga, anche se più volte interrotta, presenza ebraica in Cina. C’è il fatto che l’antisemitismo non è mai esistito in Cina e che i cinesi non riescono a distinguere fra israeliani ed ebrei. Questo, tra l’altro, spiega perché due libri recenti sugli ebrei («Sedici ragioni per comportarsi come un ebreo»; «Diventare businessman sul modello degli ebrei») sono stati i più venduti nel Capodanno cinese appena celebrato.
La presenza ebraica in Cina è antica. Per molto tempo gli ebrei vissero concentrati a Kaifeng, nel nord della Cina, sfruttando le opportunità commerciali offerte dalla «Via della seta». Questa comunità, che aveva raggiunto il massimo splendore nel IX secolo, si era poi estinta sia per la concorrenza fatta dai commerci marittimi a quelli terresti, sia per un continuo processo di assimilazione alla popolazione locale, appunto a causa della mancanza di ogni ostilità.
Le «guerre dell’oppio» ricrearono un’importante presenza ebraica a Shanghai, dove è ancora quotidianamente in funzione una delle tre originarie sinagoghe, e a Hong Kong, dove il passaggio della colonia inglese alla Cina ha diminuito, ma non di molto, la locale ricca comunità israelita.
I pogrom russi e la rivoluzione bolscevica hanno invece provocato un’ondata migratoria ebraica in Cina a partire dalla fine del XIX secolo, che si è concentrata a Harbin. Tra i primi ebrei a insediarsi in questa città (che fu sede di una importante accademia rabbinica e dove il governo cinese sta ricostruendo la principale sinagoga) ci furono anche il nonno e il padre dell’attuale premier israeliano Olmert. Questa comunità non sopravvisse però all’occupazione giapponese e alla Seconda guerra mondiale.
Non sono stati tuttavia questi precedenti a servire da piattaforma di lancio dei rapporti fra lo Stato d’Israele e la Cina comunista, oggi in crescita esponenziale. Lo è stata la complementarità su molti livelli tra gli interessi di un gigante industriale come la Cina e uno gnomo postindustriale come Israele. Per cui il recente viaggio di Olmert in Cina non è stato solo un viaggio sentimentale. È stato un viaggio che, con la firma di una serie di accordi economici e per lo sviluppo reciproco, ha confermato la Cina come il sesto esportatore in Israele, con un giro d’affari per miliardi di dollari che potrebbe rapidamente crescere se Israele decidesse di riprendere le forniture belliche che Washington osteggia. Il che non ha impedito la firma di importanti accordi in settori tecnologici non militari, specie nel campo idrico, e il mantenimento dell’accordo del 2002, che prevedeva l’addestramento e l’equipaggiamento dell’esercito cinese da parte di Israele.
L’insieme dei crescenti sviluppi economici e culturali, unitamente all’interesse cinese di ritagliarsi un ruolo attivo in Medio Oriente, stanno aprendo a Israele finestre su nuovi vasti orizzonti non solo di carattere commerciale e militare. Concorrono ad accelerare lo spostamento già in corso del baricentro economico, demografico, psicologico israeliano dall’Occidente verso Oriente.
Il crollo del prestigio americano in Medio Oriente porta a un inevitabile allentamento dell’alleanza con gli Stati Uniti continuando il processo di trasformazione di alleanze che ha caratterizzato la diplomazia del movimento sionista - prima - e dello Stato ebraico - poi. Iniziato dal passaggio dal «patrocinio» tedesco a quello inglese a cavallo della Prima guerra mondiale, questo processo diplomatico permise dopo la rottura con l’Inghilterra nel 1948 di sviluppare un’alleanza con la Francia, e di sostituirla - quando De Gaulle mise brutalmente fine ad essa nel 1968 - con quella molto più forte e strategica con l’America. Un’alleanza oggi contestata - a torto o a ragione - ma che comincia ad essere percepita come un peso dalle due parti.
Di recente uno scrittore israeliano, A.B. Yehoshua, ha suscitato scalpore affermando in un discorso tenuto all’annuale riunione della potente lobby ebraica, l’American Jewish Committee, che la diaspora ebraica americana avrebbe finito per trasferirsi in Cina se questa avesse offuscato in potenza gli Stati Uniti. Il che - considerata anche la crescita dell’antisemitismo in Europa - non mi appare più una possibilità così irreale come invece mi sembrava prima della mia visita in Cina.
(3.

fine. Le precedenti
puntate sono state
pubblicate il 26 e il 28 marzo)

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