Roma - Sette a sei: era stata indicata come la soglia minima del successo, dal Pd. Ma in realtà, con la sconfitta di Mercedes Bresso e di Emma Bonino, è il risultato peggiore che si potesse mettere in conto.
Che la partita del Lazio fosse tutta in salita, dopo il caso Marrazzo, era chiaro; ma l’assenza della lista Pdl aveva riaperto i cuori. Per il Piemonte si è sperato fino all’ultimo. E ora si punta il dito su due colpevoli, per una sconfitta che spazza via il centrosinistra da tutto il Nord (tranne l’isola della Liguria): la lista Grillo, che ha portato via un pugno di voti esiziali; e Sergio Cofferati. Che c’entra l’ex leader della Cgil? C’entra, dicono: alle elezioni europee del 2009, la Bresso avrebbe dovuto essere la capolista del Pd nel Nordovest. E il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, era designato come suo successore alla Regione: «Con lui avremmo avuto la vittoria in tasca», assicurano dal Pd torinese. Invece Cofferati ha fatto le bizze, pretendendo il posto di capolista; la Bresso, a quel punto, è rimasta in Regione. Ed è andata come è andata.
Il voto di ieri consegna comunque a Pierluigi Bersani una situazione pesante. Il Pd perde voti, la strategia delle alleanze (che guardava all’Udc innanzitutto) va rivista, perché i centristi influenzano poco o nulla il risultato: «L’unico posto dove son serviti a qualcosa è la Puglia, dove sono andati soli», allarga le braccia Peppe Fioroni. E soprattutto il quadro geografico-elettorale del centrosinistra, in vista delle prossime politiche, è disastrato. Nel Settentrione «non si tocca palla», come fa notare Pierluigi Castagnetti. Nel Sud si perdono Calabria e il gran serbatoio di voti della Campania (e nel Pd c’è chi punta il dito su Antonio Bassolino, che non si sarebbe troppo dato da fare per il suo arcinemico De Luca); e resiste solo la Puglia. Dove però rischia di aprirsi una resa dei conti nel Pd con chi (come D’Alema) non voleva Vendola.
Al Centro cade il Lazio (anche se Roma, a due anni dalla vittoria di Alemanno, torna a sinistra). «Se ci presentiamo così alle prossime politiche siamo fritti», dicono dalla minoranza. Ma persino dalle roccheforti delle regioni rosse arrivano segnali allarmanti: in Emilia Romagna la lista Grillo, col giovane candidato presidente Giovanni Favia, incassa un clamoroso 7%, soprattutto ai danni del Pd, che paga quello che qualche maligno definisce «l’effetto Prodi», ossia le dimissioni da sindaco di Bologna del pupillo del Professore, Delbono. E Di Pietro tiene bene e ora sfida il Pd a riconoscere in lui il proprio «Bossi»: «Mi auguro che si rendano conto che devono affidarsi a noi», infierisce. La strategia dell’attenzione al mondo “viola” e ai giustizialisti, attuata da Bersani, finisce sotto accusa nel partito: «Ha portato voti a loro, non a noi».
La percentuale nazionale del Pd resta sotto quota 30%, anche se cresce rispetto alle Europee. «Se l’astensionismo ha dato un ceffone al Pdl, a noi ha dato una bella sberla», commenta amaro Peppe Fioroni. Massimo D’Alema scuote la testa: «In un Paese dove a vincere sono Lega, astensionismo e Beppe Grillo qualcosa non va».
L’unico che ieri pomeriggio, pur declinando cortese ogni commento, non tratteneva un mezzo sorriso, nei corridoi del Nazareno, era Walter Veltroni: come fa notare Ermete Realacci, dirigente che gli fu vicino nei mesi di segreteria Pd, «ormai è evidente che il risultato che ottenne Walter nel 2008, oltre il 33%, è irripetibile». Il pudico sorriso veltroniano lascia presagire che, a suo tempo, il silenzio verrà rotto. In casa ex Ppi intanto si scalpita: «C’è un chiaro problema politico da affrontare», avverte Fioroni, «perché con questo bipolarismo siamo in balìa del primo che si alza e fa una lista». Un altro mariniano è ancora più chiaro: «O il Pd si dà una chiara identità di centro, o tanto vale separarci di comune accordo e fare due partiti, per intercettare voti moderati».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.