Crepuscolari, poeti con la «p» minuscola

Negli autori esaminati da Roberto Carnero, il rifiuto della retorica aulica apre la strada a un estenuato estetismo

Con la fortunata definizione di «crepuscolari», Giuseppe Antonio Borgese indicò nel 1910 una pattuglia di poeti collocatisi al tramonto della lunga tradizione lirica iniziata con Parini. Estenuati, umilmente aggrappati a quisquilie e fiori di carta, i creatori del nuovo linguaggio poetico annunciavano timidamente l’inizio di una sommessa stagione di avanguardia. Eppure lo stesso Borgese sottolineava che il loro rifiuto della «retorica dell’enfasi» non figliava che un’altra retorica, sia pure «dell’ingenuità e della semplicità». Il critico coglieva nel segno: la stanchezza crepuscolare è troppo civettuola per essere vera, la rinuncia all’agonismo e alla vita troppo polemica per sembrare veramente alternativa.
Gozzano e compagni volevano uccidere i padri, le vecchie mistificazioni ideologiche («La Patria? Dio? L’Umanità? Parole/ che i retori t’han fatto nauseose!», scrive il poeta torinese) e il consunto armamentario della poesia che celebrava il sodalizio tra sacro, sublime e simbolo. Ma il loro è stato un omicidio incompiuto. Non basta atteggiarsi a dimessi antagonisti del fasto lussureggiante di D’Annunzio per meritarsi l’etichetta di antidannunziani. Gratta gratta, l’esotismo da dandy in ritardo sui tempi di Gozzano, l’oreficeria liberty e lo straripante florealismo di Corrado Govoni, le sensazioni oniriche di Carlo Chiaves o le energiche mescidazioni poetiche di Nino Oxilia hanno il sapore del gioco meraviglioso e dello scherzo pittorico che con la spenta sonnolenza hanno ben poco a che vedere.
La galleria di testi raccolti ora con sobria puntualità da Roberto Carnero (Felicità e malinconia, Baldini Castoldi Dalai, pagg. 390, euro 10,50) dimostra che l’esibita antiletterarietà e il gusto per l’abbassamento tonale del verso sono certo coordinate inedite che rendono i crepuscolari antesignani del non-senso e del disagio disincantato che attraverserà tutto il Novecento. Essi sembrano rivendicare, come abitanti di un mondo in disfacimento, la loro crisi di identità («Chi sono?/ Son forse un poeta?/ No certo./ Non scrive che una parola, ben strana,/ la penna dell’anima mia:/ follia», afferma con tipica prosasticità Aldo Palazzeschi; «Perché tu mi dici poeta?/ Io non sono un poeta./ Io non sono che un piccolo fanciullo che piange», scrive Sergio Corazzini). E scegliere la strada dello sberleffo per vanificare certezze e mandare carte quarantotto ogni buon senso edificante («Tri tri tri,/ fru fru fru,/ ihu ihu ihu./ Il poeta si diverte,/ pazzamente,/ smisuratamente./ Non lo state a insolentire,/ lasciatelo divertire/ poveretto,/ queste piccole corbellerie/ sono il suo diletto» è la provocazione di Palazzeschi) o sfidare la tradizione esibendosi con la maschera ridanciana del clown: «il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra/ sembra il pagliaccio ch’egli è» (Marino Moretti).
E tuttavia si può essere sanissimi anche quando si ostentano la malattia e il disagio o quando si inventano con languori falsamente ingenui repertori nostalgici e al tempo stesso kitsch. Il grigiore delle «piccole cose di pessimo gusto» gozzaniane è anch'esso, a suo modo, un canone artificioso; gli organetti di Barberia, i pappagalli impagliati, le scatole vuote di confetti e gli acquerelli sbiaditi che fanno bella mostra di sé nell’Amica di nonna Speranza sono gli oggetti patetici di una poesia della rinuncia, ma anche di un calcolatissimo estetismo. Alla rovescia, ma pur sempre estetismo.
Non sorprende allora che per la maggior parte di questi poeti l’avventura crepuscolare sia stata un inizio o una tappa verso qualcos'altro: Govoni in direzione di tutti i più vari e cromatici esercizi figurativi, Palazzeschi incontro a un personale futurismo e alla più estrosa irriverenza del funambolo, Fausto Maria Martini approdato a toni sensuali con punte di aperto dannunzianesimo e chissà dove avrebbero condotto Sergio Corazzini i suoi incipienti languori religiosi se la tubercolosi non lo avesse ucciso a soli ventun anni. Tutti uniti in partenza nel rifiutare la magniloquenza e allargare il campo lessicale della poesia offrendo cittadinanza a un sermo humilis senza le ambiguità simboliche pascoliane. Ma anche qui, nel loro stinto salotto da cui è bandita l’oratoria, fanno capolino compiacimenti e intellettualismi (Gozzano mette in rima «camicie» e «Nietzsche»), sia pure, come osserva Carnero, rivisitati in chiave straniata e straniante.

Altre volte, l’espressione di questa «poesia minuscola» conosce sperimentalismi e versi liberi che dissolvono la metrica classica, inaugurando così la lezione più duratura impartita dai crepuscolari alla lirica italiana del Novecento.

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