Crescono i mille «tamburi» milanesi: il ritmo della giungla si studia a scuola

A mani nude nel parco. A Milano sono tanti i suonatori di tamburo che si cimentano con djembé africani o congas brasiliane. Non si tratta solo di extracomunitari anche se proprio loro, insieme al grande successo della musica salsa e di quella afrocubana, hanno aperto una breccia nell’interesse dei milanesi. Oggi in città gli appassionati di poliritmia e di percussioni sarebbero un migliaio e ci sono almeno tre scuole che fanno spesso il tutto esaurito. Tanto che alcuni parchi cittadini, tra questi il Sempione, il Parco Lambro e il Parco Lessona di Quarto Oggiaro, allo scoccare dei primi tepori primaverili diventano teatro delle performance dei percussionisti meneghini, proprio come succede al Parco De La Villette nella periferia parigina, sorto nel 1991 su un ex mercato del bestiame.
Fricchettoni fuori giri, fumatori di marijuana, perdigiorno e spaccatimpani? Sembra che la realtà sia un’altra. Secondo i responsabili delle scuole di tamburo che si rifanno all’Africa e al Brasile, l’età degli appassionati (e delle appassionate) oscilla mediamente tra i 25 e i 40 anni con punte di aficionados ben oltre gli anta. Proprio come nel recente film di Thomas Mc Carthy «L’ospite inatteso», in cui un distinto e introverso professore universitario, fa amicizia con un siriano che suona lo djembé in un gruppo etnico. Per l’attempato docente, imparare a sua volta a suonare il tamburo e ricredersi sui mille pregiudizi che circolano sugli immigrati, sarà tutt’uno nella New York delle mille paure. Ma torniamo a Milano. «Il gesto primordiale di battere il ritmo a mani nude - sostiene Claudio Risé, psicoterapeuta, docente universitario, scrittore e giornalista - può far riscoprire un piacere antico. Esprimere un ritmo è un modo per ritrovare se stessi nella vita molto aritmica di oggi, e racchiude una proposta anche per chi ascolta: io imparo a suonare, ma tu puoi ascoltare, ballare, avvicinarti. Rispetto a un Suv che mi sorpassa sulla destra o che mi arrota - continua Risé - preferisco chi batte sui tamburi nei parchi. Piuttosto sono i milanesi che dovrebbero imparare a diventare più curiosi, più attenti agli altri e più tolleranti». Gli fa eco il jazzista tedesco Christoph Haas, patito di strumenti arcaici a percussione: «La struttura della realtà - sostiene forse con un po’ di enfasi Haas - è ritmica. Noi viviamo da sempre in un oceano di ritmi che raggiungono i livelli più profondi dell’individuo. Diventarne consapevoli suonando - conclude il musicista - significa entrare in contatto con noi stessi, con gli altri, con la natura».
Patiti di ritmi afro e patiti di ritmi brasiliani si spartiscono quasi equamente la scena milanese, partecipando anche a qualche manifestazione. Nulla in confronto al successo che i percussionisti di strada incontrano ad esempio a Berlino o, chi mai lo direbbe, anche solo in Svizzera: feste di strada a Lugano e Chiasso sono mete abbastanza consuete per i percussionisti milanesi. Invece all’ombra della Madonnina non tutti apprezzano le poliritmie che scaturiscono da congas, bonghi, djembé e surdo.
«Quando ci capita di suonare a Milano - dice Jacopo Pellegrini, animatore di Mitoka Samba (vedi box) - i mugugni di qualcuno non mancano mai. I milanesi sono poco tolleranti anche se c’è pure chi si avvicina, chiede, ascolta e ci fa i complimenti». Ma gli spazi sono sempre più limitati e si arriva perfino al sequestro dei tamburi.

«Gli spazi? - replica Risé - purché si usi il buon senso di rispettare orari e distanze, anche i parchi cittadini possono andare bene. Meglio i tamburi - conclude il docente - degli imbrattatori che qualcuno chiama impropriamente writers».

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