Ma perché non si arrendono? Questo è lo stato d'animo della sinistra. Dopo avere perso comunali, europee, suppletive, sondaggi piepol-pagnoncel-mannheimereschi i berlusconiani dovrebbero andarsene a casa. In fin dei conti lo dice anche Marco Follini.
E invece no. Quegli slealoni continuano ad agitarsi su finanziarie, sistema elettorale, partiti unitari e così via. Presenteranno, persino, se smettono di litigare, un programma per la prossima legislatura. Così uno s'innervosisce. Comprensibile. Anche se una volta a una situazione in movimento si sarebbe risposto con l'antico «calma e gesso», precetto di pazienza biliardista in voga nel Pci e spesso evocato da Piero Fassino, almeno sin quando teneva i nervi a posto.
Oggi la calma, invece, va a zero e il gesso per ridare efficienza alla «macchina» non si riesce a trovare. Così di fronte a una proposta di riforma del sistema elettorale proporzional-maggioritaria, studiata sul modello della rossissima Toscana, si grida «all'attentato alla democrazia».
E in risposta alle argomentazioni di Camillo Ruini sulle famiglie di fatto, da una parte si avallano i fischi, dall'altra ci si esercita in ineleganti ricostruzioni dei propri rapporti con la fede.
Quello più fuori di testa appare Romano Prodi, il candidato premier. Sarà la paura per i risultati delle primarie. Ma non si tiene più. La sua lettera al Corriere della Sera sul come la Tv pubblico-privata lo discrimina, è un capolavoro di comicità: non hanno ripreso la standing ovation che ha accolto il mio saluto al Parlamento europeo quando ho lasciato la commissione. Scrive il professore bolognese. E aggiunge: il Tg3 non fa particolari favori al centrosinistra o almeno non li fa a me. In generale, secondo i dettati di un decente codice di condotta personale, si dovrebbe cercare di non essere né vanagloriosi né meschini. E se questo vale anche per i comportamenti privati, per quelli pubblici è ancora più cogente. L'uomo politico, anche se non lo è come nel caso di Prodi, dovrebbe apparire generoso, indifferente alle esteriorità. E se proprio va fatta qualche battaglia per meglio definire la propria immagine pubblica, questa va combattuta dagli addetti ai lavori.
Ma le gravi sbavature prodiane non sono isolate e svelano una più generale nevrosi di chi sente messo in discussione il primato. Si consideri la disperata uscita di Vannino Chiti, numero due dei Ds, che di punto in bianco offre la desistenza del centrosinistra all'Udc. Supponiamo che su questo tema vi sia stato più di un colloquio con singoli personaggi centristi (oggi non molto in sella nel proprio partito), perché una persona prudente, che guidava sino a poco fa, prima di essere ridimensionato da Fassino, la mitica organizzazione del partito (sia pure Ds invece che Pci) come Chiti, non avrebbe mai fatto una mossa sull'onda dei puri chiacchiericci giornalistici. Però, anche in questo caso c'è una caduta di stile, indice di forte nervosismo. Le mosse alla Chiti si fanno riservatamente. E possono essere pubbliche solo se determinano risultati politici di rilievo.
Che il numero due dei Ds abbia fatto una gaffe è evidente da come l'Unità la descrive: un'«iniziativa personale». Ma come, sei il vice di Fassino e compi un gesto alla Nanni Moretti? In effetti l'Unità sulla vicenda interviene con, come dicono i veneti, con un «tacon pegio del buso», una toppa peggiore dello strappo.
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