Politica

«La crisi non è solo politica I guai sono anche sociali»

Roberto Fabbri

«La Francia finirà su uno strapuntino dell’Europa. Il suo credito morale e il suo peso politico risulteranno indeboliti. Tra le prime vittime della vittoria del no ci saranno operai e salariati, che non beneficeranno degli avanzamenti sociali contenuti nel trattato. Per non parlare del rischio per la Francia di perdere numerosi vantaggi finanziari europei». Jack Lang, ex ministro e figura rispettata anche in ambito culturale, aveva dato l’anima per guidare il comitato socialista per il sì, ma dopo la sconfitta nel referendum è ridotto al ruolo di Cassandra, e si è sfogato col Figaro in termini sconsolati.
Non tutti la vedono così. Christine Boutin, anche lei ex ministro, è il più noto esponente dell’Ump a essersi schierata contro la ratifica del Trattato costituzionale europeo. «L’Europa non è in crisi. Si tratta di un terremoto - dice a botta calda al Giornale - ma di un terremoto salutare. La Francia è costretta a interrogarsi sulla sua politica europea e anche sulla sua politica sociale. L’opinione pubblica ha espresso molto chiaramente la sua disapprovazione». Sulle ragioni di tale bocciatura, la signora Boutin ha pochi dubbi. «Si tratta di un trattato del ventesimo secolo e non del ventunesimo. Di un documento che guarda al passato più che al futuro. Che privilegia gli aspetti economici piuttosto che la fondamentale dimensione sociale del nostro avvenire. Il Trattato europeo ha messo in luce un autentico deficit sociale, culturale, democratico e anche etico. Cosa si può fare? Cambiare urgentemente politica. «Abbiamo bisogno di un’Europa diversa da quella attuale. Il voto dei francesi non è stato contro l’Europa, ma contro un certo tipo d’Europa».
L’analisi degli intellettuali entra più nel dettaglio. François Miquet-Marty, direttore degli studi politici dell’Istituto Louis-Harris, pensa che si sia trattato di «un voto di autodifesa, in una logica di caos». «I dirigenti politici di questo Paese sono stati puniti duramente - dice a Libération -. Socialisti e gollisti, che avevano invitato a votare sì, hanno subito una sconfessione chiarissima, aggravata dall’alto tasso di partecipazione al voto, che ha raggiunto il 71 per cento come in occasione dell’approvazione del trattato di Maastricht. Gli astensionisti abituali, specialmente nelle categorie più popolari, sembrano stavolta aver preso la strada delle urne». Miquet-Marty vede come effetto di questo successo del no una tripla frattura: democratica, europea e sociale. «Vedo una convergenza di paure, con da una parte il timore di una perdita d’identità nazionale e dell’immigrazione, e dall’altra forti preoccupazioni sulle conseguenze economiche e sociali della costruzione europea così com’è percepita dai francesi. C’è stata una sorta di reazione di autodifesa del corpo elettorale, che da diversi anni prova una sensazione di dispossessamento democratico». Lo studioso considera il risultato di ieri coerente con i risultati elettorali degli ultimi anni. «Nel 2002, 2004 e 2005, che si sia trattato di presidenziali, di regionali, di europee o di questo referendum, le sensibilità politiche al potere sono state sanzionate. Chi aveva votato per Chirac nel 2002 sotto costrizione (l’avversario al ballottaggio era Le Pen, ndr) si è vendicato oggi. E Chirac ha perso su due dei suoi principali cavalli di battaglia: l’Europa e la frattura sociale, che non è stato capace di ridurre».
Tra i pessimisti sul futuro dell’Unione c’è John Palmer, direttore politico dell’istituto d’analisi di Bruxelles European Policies Centre. «In Olanda il no otterrà probabilmente una maggioranza simile a quella francese, e saranno due i Paesi fondatori ad aver bocciato il Trattato. Mi aspetto un periodo di paralisi, che probabilmente non si sbloccherà fino a quando in alcuni Paesi chiave, come la Germania, l’Italia e la stessa Francia, non saranno state prese nuove direzioni politiche».
Marco Incerti, della Ceps di Bruxelles, nega che i francesi abbiano voluto fermare l’integrazione europea. «Almeno alla fine di quest’anno - afferma - il processo di ratifica dovrà continuare. I quattro referendum previsti in Olanda, in Lussemburgo, in Danimarca e in Portogallo da qui a ottobre forniranno una massa di informazioni. Se si potrà dire che molti popoli hanno detto sì al trattato, allora sarà possibile chiedere ai francesi di pronunciarsi ancora».
Charles Grant, del Centre for European reform di Londra, ritiene che i dirigenti dell’Ue potranno annunciare «una pausa di riflessione» prima di riconvocare una nuova Conferenza intergovernativa incaricata di delineare un nuovo trattato dai contenuti più essenziali.

Ma il no francese, aggiunge precisando di non voler cadere nel catastrofismo, «può aprire un periodo di confusione, d’incertezza e di recriminazioni».

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