Siamo tutti d'accordo: costruire case abusive sulle rive di fiumi e torrenti è da criminali. Ed è uno dei crimini a me più misterioso perché compiuto alla luce del sole, immagino con un gran viavai prolungato di uomini e mezzi, con un elevato numero di complici tra architetti, geometri, operai, artigiani e fornitori che certo non possono non sapere il reato che si sta commettendo. È un po' come se dei malviventi invece di assaltare armati e mascherati una banca affiggessero il cartello «attenzione, rapina in corso, si prega di non disturbare» e con calma svuotassero il caveau, magari durante gli orari di ufficio.
Qui non stiamo parlando di una veranda allargata o di una finestra aperta in attesa di un permesso, o - se non vogliamo essere ipocriti - di una sanatoria. Per scoprire e perseguire simili furbate ci vuole fiuto e lavoro a volte certosino. No, costruire una casa intera là dove fino al giorno prima c'era un argine o un bosco ha una dinamica che non può passare inosservata, né alle «autorità competenti» né alla comunità civile che abita nei pressi. Questo tipo di abusivismo necessità di omertà e complicità a tutti i livelli.
La casa sul fiume che alla periferia di Palermo ha fatto da tomba a nove inquilini era stata dichiarata abusiva nel 2008, al momento non sappiamo quanti anni dopo la sua costruzione. Sono passati dieci anni da quella sentenza, nulla è successo. Si è ancora oggi in attesa della decisione su un ricorso presentato al Tar dal proprietario, come se una casa spuntata dal nulla su un corso d'acqua potesse essere «non abusiva» oppure solo «un po' abusiva» (la legge prevede per le nuove costruzioni una distanza minima dall'alveo di almeno 150 metri), oppure abitabile in base alle previsioni meteo.
Siamo alla follia pura. In troppe parti d'Italia, e la Sicilia è tra queste, l'abusivismo edilizio oltre che diffuso è sostenuto da un abusivismo giudiziario (dieci anni per una sentenza che ancora non arriva) e amministrativo (i sindaci sapevano ma non sono intervenuti).
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