Cultura e Spettacoli

"Così Einaudi mi offrì mezza mela al Quirinale"

Parsimonioso, umile, risparmiatore: che nostalgia per il liberale presidente della Repubblica

"Così Einaudi mi offrì mezza mela al Quirinale"

Stanotte come sempre più spesso mi capita in questi ultimi tempi ho sognato Einaudi, o meglio ho rivissuto in sogno la colazione cui m'invitò poco dopo la sua elezione al Quirinale insieme alla collega inglese Barbara Ward, la prestigiosa editorialista del prestigioso Economist.

Ci andammo insieme, entrambi imbarazzatissimi dagli scatti sull'attenti dei corazzieri scaglionati per tutto il percorso della «lunga manica», che non è lunga solo per modo di dire. «Come si risponde?» mi chiedeva Barbara con angoscia. Cercammo di cavarcela con degl'inchini, che dovevano essere, specialmente i miei, piuttosto goffi.

Gli Einaudi, moglie e marito, in Quirinale ci abitavano, come non hanno più fatto gli ultimi successori. Ma senza introdurre, per evitare spese, novità nella cosiddetta «palazzina» (un vestibolo, un salotto, uno studio, una camera da letto a due piazze e un bagno), rimasta come l'avevano lasciata i Savoia, che invece non l'avevano abitata mai. Poteva essere l'appartamento di un agiato professionista o di un cattedratico universitario. Il pranzo consistette in prosciutto e melone, consommé, branzino lesso e frutta. Alla frutta, Einaudi prese dalla fruttiera una mela, e mi chiese: «Ne vuole mezza?».

Fu la sola occasione che mi venne offerta d'intervenire in una conversazione svoltasi fin allora unicamente fra lui e Barbara su certe lettere di Stuart Mill che l'Economist aveva riportato, secondo lui, in maniera incompleta, e quindi inesatta in quanto non aveva citato («Glielo dica al suo direttore, glielo dica») le postille che in parte correggevano, in parte rovesciavano il senso del suo discorso. Barbara tenne botta con bravura cercando di fare argine all'oltranzismo liberista del presidente, che reagì spazientito: «Non vorrà mica prendere sul serio il paradosso protezionista di Bastiat, secondo il quale il governo doveva vietare al sole l'ingresso in Francia perché avrebbe fatto sleale concorrenza ai produttori indigeni di candele?».

Preso coraggio dalla risata di Barbara, gli chiesi se era vero che ogni mattina si faceva portare dal segretario alla Presidenza, Carboni, tutti i conti del Tesoro, dei Buoni del Tesoro e delle contabilità speciali di tutta la pubblica amministrazione. «Be',» rispose lui «un padre di famiglia se non riguarda i conti della famiglia, che padre è?». «E se i conti non tornano?» incalzai, senza aspettarmi risposta che infatti non venne, ma ben sapendo che ogni giorno dal suo scrittoio partivano all'indirizzo di ministri, sottosegretari ed altra varia nomenclatura, dei bigliettini vergati a mano su carta non intestata, zeppi di cifre, di postille e di richiami al tale comma di tale articolo di tale legge o decreto, su questa o quella sbavatura della pubblica spesa senza copertura di relativo introito. «Un autentico flagello» mi aveva confidato uno dei destinatari, un flagello di cui la pubblica opinione era tenuta completamente all'oscuro. Fuori di questi, del tutto informali e mantenuti nella più stretta riservatezza, Einaudi non aveva altri contatti col mondo politico, se non quelli ufficiali. Unica sua vita di relazione, quella con l'Accademia dei Lincei, di cui era membro ed alle cui «comunicazioni» non mancava mai.

In pubblico, la sua voce si udiva soltanto per il consueto messaggio di Capodanno: due paginette e via, lette alla svelta, incespicando, senza variazioni di tono e con evidente imbarazzo.

A questo punto forse qualche lettore mi chiederà perché, ed a che proposito, rievoco Einaudi e quei suoi silenzi. È quello che mi chiedo anch'io. Mah! Che sia la nostalgia? 1 luglio 1996.

Indro Montanelli

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