Cronache

Così i parenti delle vittime mettono in piazza il dolore

Non sempre la pornografia del dolore è colpa di noi giornalisti

Così i parenti delle vittime mettono in piazza il dolore

Non sempre la pornografia del dolore è colpa di noi giornalisti. La mia non è una difesa corporativa ma un'amara constatazione. C'è stato un tempo in cui il cronista doveva rincorrere il padre della vittima brandendo il microfono come un'arma contundente per registrare tutt'al più il secco «no comment» di quel genitore fermo nell'intenzione di infilarsi in auto e mettersi così al riparo dall'intrusione mediatica. Oggigiorno, con il cadavere ancora caldo del figlio barbaramente ucciso o della figlia ignobilmente stuprata, i familiari più stretti si concedono generosamente all'occhio della telecamera. Non hanno contattato ancora l'agenzia funebre per definire i dettagli dell'ultimo saluto, non si sono cambiati i vestiti, non hanno avuto il tempo di guardarsi allo specchio, di osservare quel letto vuoto per prendere coscienza di un'abissale verità: «Nostro figlio non c'è più». Eppure li osservi seduti sul divano di casa dove hanno accolto giornalista, tecnici e operatori, sono lì che ascoltano le domande del conduttore, guardano fisso nel teleobiettivo, si appuntano sul petto il microfono a mosca, si fanno contendere dai programmi di punta alimentando un immondo «mercato» del dolore, non trattengono le lacrime, in certi casi piangono a dirotto, come se fossero soli in un bugigattolo silente e non davanti a una chiassosa platea di milioni di spettatori.

L'ultimo caso in ordine di tempo riguarda la madre di Nicolina che, appresa la notizia dell'ex compagno che ha sparato in faccia a sua figlia, condivide su Facebook il link di una testata online condendolo con improperi e plurimi emoticon di faccine piangenti. Lacrime virtuali, non è uno scherzo. E che dire dello show televisivo attorno all'omicidio di Noemi con le rispettive famiglie impegnate in un'interminabile resa dei conti. Dall'immagine televisiva di questi padri e madri e fratelli e cugini non trapela il benché minimo ritegno, e la colpa è difficilmente ascrivibile al giornalista o al manichino che regge il microfono. Costoro non conoscono pudore, intimità, riserbo. Vi è forse un effetto catartico nella spettacolarizzazione mediatica, esiste una flebile speranza che l'esteriorizzazione del dolore ne attenui l'intensità. Gli spettatori si appassionano al sequel mortifero, a ogni ora del giorno c'è l'ultima dichiarazione del padre al quale ha risposto, proprio pochi minuti fa, la madre del presunto omicida il quale fa sapere in un video che non rilascerà dichiarazioni, a parte quelle vergate dall'avvocato su Facebook.

Siamo al cortocircuito di un Grande Fratello a tinte nere e gialle, la vittima viene accoltellata e uccisa a sassate in assenza delle telecamere, è vero, ma la madre lo apprende quasi in tempo reale mentre il padre dell'assassino viene informato in diretta perché ha spalancato le porte di casa alla pubblica piazza affinché tutti possano vedere e giudicare; nel reciproco lancio di accuse e sospetti c'è sempre una controparte che pretende il diritto di replica a favore di telecamera. Se la spia rossa non è accesa il flusso della vita reale è come interrotto. I conti si regolano in diretta, il processo si celebra in diretta.

Meglio pensare che l'amplificazione mediatica risponda al bisogno elementare di una valvola di sfogo, e non all'irresistibile fascino di quei quindici minuti di notorietà mai conosciuti prima.

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