Egle non alza la voce, parla con calma, senza mostrare rabbia, quello che ha dentro lo sa solo lei, qui davanti a tutti si ripromette di mostrare solo la dignità del dolore. Non chiede nulla che non sia umano: se qualcuno ha sbagliato paghi il suo errore. Non per giustizia divina, ma per quella terrena. C'è un giudice per Genova? Sul braccio di Egle si leggono quattro nomi, come una corona di spine: Claudia, la sorella, Andrea, il cognato, Camilla e Manuele, i nipoti. Li ha scritti sulla pelle. Non è per non dimenticare. È impossibile per lei dimenticare. È perché vuole che stiano lì, anche per gli altri. Egle di cognome fa Possetti. È il sindaco di Pinerolo e il presidente delle vittime del 14 agosto 2018, il giorno in cui è crollato il ponte Morandi.
Chissà se Conte, Di Maio, Salvini quei nomi li hanno letti. Non è facile stare lì, in prima fila, con la faccia da commemorazione, e non avere parole. Cosa dici di un ponte crollato che sembra il simbolo dell'Italia? Guardi questa carcassa monca e non ti viene da immaginare nulla. Ci sarà un altro ponte, un futuro, qualcosa da cui ripartire? Ci vorrebbe un'idea di Italia. Solo che qui nessuno ce l'ha veramente. Non si ha neppure un'idea di quello che potrebbe accadere domani o dopodomani. Si va avanti alla giornata, discutendo sull'abbronzatura, giocando al gioco della crisi di governo, in una campagna elettorale senza fine, perché se ti fermi per un attimo di acchiappare consensi sei finito. Tutto di questi tempi si consuma in fretta. Adesso è già ieri. È già svaporato, smaltito, svanito attimo dopo attimo. Le commemorazioni diventano così il modo formale e burocratico per fingere di non dimenticare. Ogni giornata ha la sua memoria. Solo che spesso è una memoria rito, senza carne, senza sangue, senza dolore. È una memoria morta, da calendario. È un appuntamento istituzionale sull'agenda di Palazzo. È quello che Egle, e altre e altri come lei, hanno sentito ieri mattina. Allora ha passato una mano su quei nomi segnati sulla carne, per sentirne le cicatrici.
La memoria. La memoria ha bisogno di un tempo lento, quasi sospeso, una sorta di magia che ferma il tramonto del sole per tutto il tempo che ci vuole per raccontare quel giorno maledetto. La memoria non ha fretta e non la puoi calendarizzare. Non è una storia che dura ventiquattro ore. Non trova pace in questa stagione malata di frenesia del presente. È come quando a Macondo, il paese di Cent'anni di solitudine, arrivò il morbo dell'insonnia e dell'oblio. Tutti cominciano a dimenticare tutto, i fatti, i ricordi, i nomi delle persone e delle cose. Un ponte? Perché qui c'era un ponte? E come si chiamava?
La politica che vive di attimi non ha tempo per un ponte. Un ponte per ricostruirlo devi pensarlo. Lo devi vedere. I ponti sono un dialogo tra due sponde lontane. È un discorso. È una prospettiva. Il ponte non è più qualcosa di urgente, non è più un argomento centrale, topico, nel mal di pancia del «popolo dei social». Il ponte, diranno strateghi e consulenti, può attendere. Il ponte viene dopo: dopo la sfiducia, dopo le alleanze per il voto o il non voto, dopo le navi da fermare o da far attraccare, dopo il braccio di ferro con Bruxelles, dopo il nuovo ordine del giorno e la nuova indignazione.
Il ponte è un processo che diventerà vecchio. Il ponte è una promessa che non c'è più fretta di mantenere. Il ponte per la politica è un appuntamento sull'agenda a cui ti tocca di andare. Ci vediamo il prossimo 14 agosto.
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